Devo ammetterlo, a furor di popolo, venerdì scorso 25 ottobre, quel bronzeo nitrito echeggiava fair e play nel Salone, che fu ed è simbolo dell’Onore conquiso sulle piste e sui campi, ma anche giù dai podi, nella periferia dello sport e del sociale, laddove la promiscuità tra felicità e dolore assume le sembianze, i colori, i toni scanzonati del sentimento popolare alimentato dal poco e dal niente, da chi si nutre di speranze mai vane ed è capace di ambire, dalla corona d’ulivo a quella d’alloro. Oggi, nel ripercorrere i sentieri della memoria, ho pensato al dove e al quando, alle vanaglorie di tante imprese approdate nell’immaginario, ai tanti simulacri finiti in cassetti e cassonetti, a quel che rimane tra le sacre sponde di un movimento, quello sportivo, che è stato ed è capace di tutto, di unire e dividere, di fornire autentici inebrianti e spacciare onirici falsi, di mantenere il ruolo universale in millenni di evoluzione ed involuzione di questa umanità, così bella e perversa. Venerdì scorso, lo confesso, ho vissuto una esperienza gladiatoria, ho percepito energia sorgiva, nell’elaborare in diretta quella straordinaria congiuntura temporale, spaziale e morale, nel dare un senso autentico a quell’incontro dominato dal simbolico aire etrusco di quel cavallo, che si è accompagnato all’alata Nike, nel connotare di suggestioni emotive i riconoscimenti ai destinatari Mutti, Mariotti, Panzarino, Duchi, Lodadio, Gentile, Vittorioso, Catoia, Pedersoli e Fronteddu, che in realtà hanno rappresentato, riassunto l’immensa platea del bene, di chi da sempre concepisce il gioco leale, di chi continua a nobilitare la collettività planetaria, diversamente capace delle peggiori nefandezze, piuttosto che di agnostica rassegnazione. La mia frazione di staffetta è iniziata nel 1941 – con l’allarme della Seconda Guerra capace di reiterare l’insulto storico della sospensione olimpica – è proseguita nella rinascenza degli anni cinquanta e sessanta dovuta a donne e uomini detentori di valori straordinari, capaci di temperanza, resilienza, pazienza, umiltà, ma anche di geniale determinazione, di illuminate visioni, di volontà ottimistica e di irriducibile fair play, in alternativa al cinismo dei satrapi pessimisti, dei cultori del tutto e subito per se, lasciando gli altri alla clemenza di Dio. Devo confessare che con il passare dei decenni, dagli anni settanta ai novanta e poi entrando nel terzo millennio, ho percepito la rarefazione delle vocazioni naturali al sacrificio o addirittura al martirio, come capitava un tempo, ma non c’è verso, sia pure in forme alternative, trasmutate dal divenire, dall’inesorabile progressione geometrica degli aggiornamenti, dalla metamorfosi delle modalità dei rapporti, il sentimento valoriale del fair play non ha subito infiltrazioni, anzi riemerge più bello e forte che pria.
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