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Le linee-guida di Brindisi tra pseudosociologia e metadiritto

È uscito recentemente (28.7.2017) su www.diritto.it un commento di Maria Serenella Pignotti – neonatologa e pediatra – alle Linee-guida introdotte dal tribunale di Brindisi, puntigliosamente mirato a smascherare un odioso complotto che sarebbe in atto da parte dei “padri separati”. L’autrice, purtroppo, aldilà delle sue rispettabilissime opinioni, con il medesimo tono cattedratico sviluppa una serie di argomenti fondati su pesanti “inesattezze”, che travisano completamente l’attività e il senso degli interventi del gruppo di lavoro brindisino, al quale chi scrive ha partecipato di persona. Anzitutto parte subito male, confondendo i protocolli di intesa – ovvero accordi tra più soggetti – con le linee guida, che rappresentano autonomi orientamenti. A Brindisi si sono varate delle Linee-guida, non si sono firmati protocolli. L’equivoco non è di poco conto, ove si consideri la virulenta polemica innescata da chi si è “indignato” per non essere stato convocato al “tavolo delle trattative”. A torto: non c’era nulla da concordare. Naturalmente l’errore sarebbe facilmente perdonabile a chi, come l’Autrice, non mastica di diritto, se non fosse che la medesima si scaglia pesantemente contro chi sconfina in territori non suoi… Chiariamo subito. La Nostra è convinta che ciò che conta è l’attestato, il pezzo di carta; a differenza di chi scrive, che ritiene invece che la competenza – requisito di natura prettamente sostanziale – si guadagna sul campo e che i pezzi di carta non sono né necessari né sufficienti a darne prova. Quanti hanno le conoscenze e non il titolo formale si chiamano “cultori della materia”, categoria riconosciuta perfino a livello accademico. Quindi andrebbe benissimo che l’Autrice, ufficialmente di altra cultura, disserti su scelte prettamente giuridiche e anche che si allarghi a considerazioni sociologiche, se si dimostrasse informata e competente. Purtroppo, aldilà di quanto appena osservato, dimostra di non esserlo. Ma andiamo per ordine. È curioso, tra le varie cose, il suo scandalizzarsi perché “al tavolo della firma, per ragioni comunque sconosciute, … sedessero esponenti delle associazioni dei padri separati.” È curioso perché le linee-guida sono state, ovviamente, firmate solo dai magistrati di Brindisi e perché il documento – e vi è scritto a chiare lettere – è stato elaborato da un gruppo di lavoro del quale non facevano parte misteriosi e plurimi gruppi di padri separati, ma una sola associazione, Crescere Insieme, che non è di padri separati. Si tratta, infatti, di un movimento di persone, uomini e donne, sposate e non, anche senza figli, che agisce per vedere riconosciuti a questi ultimi i loro indisponibili diritti, costituzionalmente garantiti. Ma la cosa ancora più curiosa è che non solo il nome di chi scrive, Marino Maglietta, vi è ben evidente, ma che la concittadina d.ssa Pignotti ha con il suddetto e con Crescere Insieme una risalente conoscenza, coltivata anche di recente per avere gestito il caso di un suo iscritto, per altro non ancora concluso. Quindi sa benissimo come si pone. Allora perché questa sorta di damnatio nominis? Perché fingere che i soggetti siano altri (a proposito di ipocrisia…)? Sembra abbastanza chiaro. Perché attribuendo correttamente la partecipazione alle linee-guida a persona già chiamata più volte alla formazione decentrata dei magistrati alla guida di un gruppo che opera a favore dei figli la tesi del “complotto di padri separati”, impreparati e superficiali, non stava in piedi; anzi, non partiva nemmeno. E su questo punto vale la pena di rammentare che nemmeno lo stucchevole argomento dello “strapotere politico” di queste organizzazioni regge alla più elementare analisi. L’affidamento condiviso è la naturale, dovuta, conseguenza dell’art. 30 della Costituzione, oltre che degli obblighi internazionalmente assunti dal nostro paese. Che l’Italia si sia tenuta per decenni un modello chiaramente incostituzionale e che per aggiustare le cose siano occorse 4 legislature e 12 anni di battaglie parlamentari è prova, caso mai, dello strapotere politico di altre categorie, ovvero degli interessati fautori del modello monogenitoriale. Sulla base di queste premesse la Dottoressa liquida in poche battute le conclusioni operative delle lineeguida – la parte essenziale, perché di diritto si tratta – riferendone in modo del tutto infedele, dimostrando di non avere alcuna padronanza dei concetti giuridici; o di travisarli deliberatamente, il che è peggio. In estrema sintesi vede quello che non c’è e non vede quello che c’è. Non è questa la sede per contestare punto per punto le tesi dell’Autrice quando afferma che con le linee-guida si pretende di risolvere ogni problema, che si vuole imporre un’unica ricetta per tutte le situazioni, che l’assegno viene soppresso, che ai figli si sottrae la casa, ecc. A tale scopo si rimanda, ad es., a “Marino Maglietta — Le linee guida del Tribunale di Brindisi in materia di affidamento condiviso dei figli nella separazione: una diversa lettura“, in Foro Italiano, I 2505, Luglio-Agosto 2017. Può essere sufficiente commentare qui la pretesa che si voglia imporre “ la cosiddetta “bigenitorialità”, sempre e comunque, anche di fronte a padri violenti, maltrattanti, incapaci o malati di mente”. Certamente capita che occasionalmente si assumano decisioni criticabili; ma cosa c’entrano le prescrizioni di legge con episodiche applicazioni distorte – che nessuno desidera – della legge stessa? A parte l’evidente “distrazione” della Nostra, che dimentica che nella discutibile utilizzazione dell’affidamento condiviso – per quanto solo formale – si collocano anche i casi delle madri abusanti o psicopatiche, per i quali è difficile sostenere che siano conseguenza delle pressioni dei padri… Occorre, tuttavia notare che la dimostrazione più evidente della difficoltà della Nostra a seguire un ragionamento giuridico è data da quanto afferma sull’ascolto del minore: “Tornando al protocollo, impossibile non notare, infine, come esso prenda a mala pena in considerazione l’ipotesi dell’ascolto del bambino. … Questo aspetto, il mancato ascolto dei figli che pure saranno quelli che più di ogni altro porteranno il peso della decisione dei genitori o della sentenza del giudice, appare il più grave nella disamina del protocollo dei padri separati, prodotto di quella cultura patriarcale che pone in capo al padre il diritto di decisione sul destino della famiglia e che riemerge ancora e fin troppo spesso, brace ardente sotto una scarsa cenere.” Dove la posizione delle linee-guida viene esattamente capovolta. Dopo avere lamentato che l’illegittimo intervento del D.lgs 154/2013 abbia reso opzionale l’ascolto, si conclude infatti: “l’art. 315 bis attribuisce al minore il diritto all’ascolto senza condizionamenti. Pertanto, dovendosi necessariamente scegliere tra due prescrizioni incompatibili, essendo la fonte della seconda norma il Parlamento stesso (Legge 219/2012) non si può optare che per la versione di cui all’art. 315 bis c.c.”. No comment. In sostanza, oltre alle sistematiche deformazioni dei contenuti giuridici delle linee-guida sopra elencate emerge un errore metodologico, sistematico: ovvero l’inversione dell’eccezione con la regola. Questo avviene sia sul versante psicologico che su quello giuridico. Certamente analisi scientifiche di natura statistica contengono anche accenni alle situazioni minoritarie, riserve per i possibili casi particolari. Ma ciò che deve guardare chi vuole comprendere e utilizzare le risultaze di una ricerca è la sintesi, le conclusioni finali alle quali arriva l’autore. Questo è tipicamente espresso nell’Abstract della pubblicazione e di questo ha fatto uso il Tribunale di Brindisi. Affermazioni conclusive come “Results showed that most outcomes were similar for children with shared residence and those living with two custodi al parents in the same household, while several outcomes were worse for children living with one parent.” (E. Fransson et al., 2017) non possono essere smontate andando a cercare prudenti e doverose riserve sparse qua e là per un testo. Meno che mai invocando “diversità” locali, in un mondo fortemente globalizzato, nel quale la Svezia ospita percentualmente più neri dell’Italia. Allo stesso modo, indubbiamente la partecipazione dei genitori alla cura dei figli in condizioni di pari opportunità non può aversi quando le abitazioni sono molto distanti o i figli sono ancora in allattamento (esempi tolti dalle linee-guida!), ma queste circostanze sono davvero numericamente prevalenti, così da giustificare la prassi attuale? Il comune buon senso si pone una serie di logiche domande. È mai possibile che, con 17 anni quale durata media del matrimonio che finisce con la separazione i figli dei separandi siano prevalentemente in tenerissima età? È mai possibile che formandosi le coppie mediamente al di sopra dei 30 anni, quando l’attività lavorativa di ciascuno di regola si è stabilizzata anche localmente e si parte da una residenza comune, subito dopo prevalga una distanza abitativa incompatibile con lo shared parenting? Ed è mai possibile che sostituendo all’affidamento esclusivo l’affidamento condiviso si intendesse mantenere un genitore prevalente e il diritto di visita per l’altro? Quanto, poi, alle disquisizioni psicologiche della parte preponderante della Nota, sono le stesse puntualmente svolte da altri colleghi dell’Autrice nei 12 anni che hanno condotto alla riforma del 2006, senza convincere il Parlamento. Chi scrive non ha alcuna intenzione di fare sue le opinioni contrarie (si riconosce incompetente), limitandosi ad osservare che nelle linee-guida si sono solo riportate fedelmente le conclusioni di una quantità di addetti ai lavori, le più recenti disponibili, e solo quale argomento aggiuntivo, essendo naturalmente prevalenti le motivazioni giuridiche. D’altra parte, la maggior parte delle osservazioni dell’esperta andrebbero girate al Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi, che ha affermato tutt’altro in audizione al Senato, non ai “padri separati”… a meno che anche il Consiglio non debba andare a lezione dalla Nostra. Concludendo, il Tribunale di Brindisi (e altri ne stanno seguendo) non ha fatto altro che applicare una legge dello stato con diligenza maggiore di quanto fin qui praticato, consapevole del fatto che le regole le stabilisce il Parlamento, e non la magistratura, e che per cambiare una legge che non sia piaciuta è necessaria un’altra legge: in uno stato di diritto. La Nota, invece, oltre a travisare i fatti ne fornisce un’interpretazione di comodo, di matrice chiaramente ideologica (il sessismo di cui accusa le linee-guida è una evidente proiezione del pensiero dell’Autrice), fortemente autolesionista, visto che si scaglia contro un documento che vuole assicurare alle madri separate il sacrosanto diritto alle pari opportunità. Un’interpretazione, oltre tutto, portata avanti con la più scorretta delle pratiche, ovvero stravolgendo perfino la lettura dei dati dell’Istat relativi all’applicazione dell’affidamento condiviso, per quanto davvero inequivocabili, visto che la matematica non è un’opinione. La Nostra, infatti, finge che sia una sua scoperta che da essi risulti un massiccio passaggio all’uso del termine “condiviso” rispetto a “esclusivo”, sorvolando disinvoltamente sugli immutati contenuti dell’istituto e pertanto omettendo il commento che l’Istat fa nel riportarli, ovvero che quel cambiamento, che nessuno nasconde, è solo nominalistico; ovvero che siamo di fronte a una legge violata: “al di là dell’assegnazione formale dell’affido condiviso, che il giudice è tenuto a effettuare in via prioritaria rispetto all’affidamento esclusivo, per tutti gli altri aspetti considerati in cui si lascia discrezionalità ai giudici la legge non ha trovato effettiva applicazione.” Un ragionamento serio può anche concludersi qui.

Marino Maglietta

 

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