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LE DONNE E L’ASSEMBLEA COSTITUENTE…

Oggi penso con vera commozione a Vitaliana Carnesecchi , una di quelle giovani dell’UDI (Unione Donne Italiane) che vollero, fortissimamente vollero, negli anni difficili dell’Italia travagliata, la dignità delle donne, lavorando con successo nella Commissione per il Voto alle Donne. Vitaliana , nata a Firenze nel 1922, si è spenta novantatreenne ,
poco più di un anno fa, in quel di Anzio, lasciando a me e tutti quelli che hanno beneficiato del suo appassionato apporto nell’Associazione Italiana Cultura e Sport il profumo ed il colore indelebile della fierezza al femminile. Questa l’eredità di una donna, tra quelle cui dobbiamo una parte importante della Res Publica, di cui oggi siamo o dovremmo essere responsabili custodi. Voglio rendere omaggio a Vitaliana e a tutte le donne che sono state con lei protagoniste della stagione del coraggio, affidandomi al saggio di Giulia Pezzella, realizzato per la Treccani nel 2006:
VITALIANA CARNESECCHI
“Il 2 giugno 1946 i cittadini italiani di entrambi i sessi, maggiori di 21 anni, vennero chiamati alle urne per eleggere i componenti dell’Assemblea costituente e per votare il referendum istituzionale che avrebbe stabilito se l’Italia sarebbe stata una nazione monarchica o repubblicana. L’importanza di quella chiamata elettorale appare evidente: era straordinaria per più di un motivo.
La fine della dittatura, dell’occupazione nazifascista e il ritorno alla libertà di scegliere democraticamente i rappresentanti veniva anche celebrato aprendo le porte a una parte della popolazione che fino ad allora (e non solo in Italia) era stata esclusa: le donne.
In generale fino alla fine del XIX secolo era largamente diffusa l’idea (e non solo tra gli uomini) che la componente femminile non potesse partecipare alla vita politica a causa della sua caratteristica ‘emotività’, generatrice – si riteneva – solo di turbamento nella gestione degli affari di stato. Con le discussioni sull’allargamento del suffragio iniziarono a farsi sentire le prime voci che ipotizzavano l’ingresso delle donne nel corpo elettorale ma furono comunque escluse dalla riforma del 1882 e da quella del 1912 (che introduceva in Italia il suffragio universale maschile). Quando poi i tempi sembravano essere maturi e il voto alle donne (con alcune restrizioni) una meta raggiunta, le note vicende politiche interruppero questo processo. Successivamente, nel 1925, Mussolini le incluse – ancora una volta con una serie di norme restrittive – nell’elettorato amministrativo ma l’anno dopo con l’abolizione degli organismi rappresentativi locali si chiuse ogni discussione sui diritti politici, per tutti.
Appena costituito il Governo di Liberazione Nazionale, le donne si attivarono per entrare a far parte del corpo elettorale: la prima richiesta (ottobre 1944) è della Commissione per il voto alle donne dell’UDI che successivamente si mobilitò per ottenere non solo il diritto di voto ma anche quello di eleggibilità. Dal punto di vista politico l’istanza era trasversale – sostenuta dalle rappresentanze dei centri femminili del Partito liberale, Democratico cristiano, Democratico del lavoro, Partito d’azione, Partito socialista, Partito comunista italiano – come anche il Comitato nazionale pro-voto nel quale confluirono le principali organizzazioni. Finalmente il decreto legislativo luogotenenziale del 31 gennaio 1945 sancì definitivamente il suffragio universale e la Consulta (il primo organismo politico nazionale dopo la guerra, al quale i partiti invitarono anche le donne e ne entrarono 13) con il decreto del 10 marzo 1946 relativo alle “Norme per l’elezione dei deputati all’Assemblea Costituente”, incluse anche le donne tra gli eleggibili. Cadevano in entrambi i casi le norme restrittive ipotizzate sempre nel passato e si affermava il principio dell’uguaglianza tra i sessi almeno per quanto relativo ai diritti politici.
Quel 2 giugno 1946, dunque, era una giornata importante per tutta l’Italia. Tra le macerie e le miserie lasciate dalla dittatura e dalla guerra, ovunque si discuteva di politica e la voglia di ricominciare era tanta. Per le donne quella fu una primavera davvero eccezionale. Per la prima volta potevano non solo ascoltare, ma anche prendere parte attivamente alla vita politica. Tra addottrinamenti familiari e moniti ecclesiastici avevano finalmente conquistato la libertà di scegliere, di esprimere i loro ideali, le loro aspettative, i loro progetti protette dal segreto dell’urna. Loro, quelle stesse donne che non potevano accedere a molti ruoli della Pubblica Amministrazione (erano escluse dalla magistratura e dalla diplomazia, per esempio), loro che erano sempre sotto la patria podestà di un qualcuno (prima il padre e poi il marito), loro che rischiavano il licenziamento se volevano sposarsi, loro che valevano meno dei loro colleghi maschi (a parità di lavoro, le donne ricevevano un salario inferiore a quello degli uomini) e che non vedevano riconosciuta la parità neanche all’interno della famiglia (l’uguaglianza tra moglie e marito come anche tra genitori nei confronti dei figli verrà stabilita solo con il Nuovo Codice di Famiglia del 1975). Loro quel 2 giugno votarono in massa.
Le elette furono 21 su 556, cioè poco meno del 4%. Nove erano comuniste, nove democristiane, due socialiste e una era stata eletta tra i candidati dell’Uomo Qualunque.
Quasi tutte laureate, molte di loro insegnanti, qualche giornalista-pubblicista, una sindacalista e una casalinga; tutte piuttosto giovani e alcune giovanissime. Molte avevano preso parte alla Resistenza, pagando spesso personalmente e a caro prezzo le loro scelte, come Adele Bei (condannata nel 1934 dal Tribunale speciale a 18 anni di carcere per attività antifascista), Teresa Noce (detta Estella, che dopo aver scontato un anno e mezzo di carcere perchè antifascista venne deportata in un campo di concentramento nazista in Germania dove rimase fino alla fine della guerra) e Rita Montagnana (che aveva passato la maggior parte della sua vita in esilio).
“Delle venti donne elette fu prima, alle tre e mezza, la on. Bianca Bianchi, socialista, professoressa di filosofia che a Firenze ha avuto 15.000 voti di preferenza – si legge sulle colonne del Risorgimento liberale il 26 giugno, giorno successivo all’apertura dei lavori della Costituente – Vestiva un abito colore vinaccia e i capelli lucenti che la onorevole porta fluenti e sciolti sulle spalle le conferivano un aspetto d’angelo. Vista sull’alto banco della presidenza dove salì con i più giovani colleghi a costituire l’ufficio provvisorio, ingentiliva l’austerità di quegli scanni. Era con lei (oltre all’Andreotti, al Matteotti e al Cicerone) Teresa Mattei, di venticinque anni e mesi due, più giovane di tutti nella Camera, vestita in blu a pallini bianchi e con un bianco collarino. Più vistose altre colleghe: le comuniste in genere erano in vesti chiare (una in colore tuorlo d’uovo); la qualunquista Della Penna in color saponetta e complicata pettinatura (un rouleau di capelli biondi attorno alla testa); in tailleur di shantung beige la Cingolani Guidi, che era la sola democristiana in chiaro; in blu e pallini rossi la Montagnana; molto elegante, in nero signorile e con bei guanti traforati la Merlin; un’altra in veste marmorizzata su fondo rosa”. Nel gruppo delle comuniste c’era anche la giovanissima Nilde Iotti, che era stata durante la Resistenza prima responsabile dei Gruppi di Difesa della Donna e poi porta-ordini (verrà nominata nel 1979 Presidente della Camera, prima donna nella storia della Repubblica e confermata fino al 1992); tra le democristiane Elisabetta Conci, figlia di un senatore del vecchio Partito Popolare, la partigiana Angela Gotelli che aveva partecipato alla Resistenza nel parmense e Angela Guidi Cingolani, la prima donna che sarà chiamata al governo, come sottosegretario, nel VII governo De Gasperi. Il contributo delle neodeputate alla proposta di Costituzione
Cinque delle ventuno neo deputate – Angela Gotelli (Dc), Maria Federici (Pci), Nilde Iotti (Pci), Angelina Merlin (Psi) e Teresa Noce (Pci) – entrarono a far parte della “Commissione dei 75”, quella commissione che era stata incaricata dall’Assemblea costituente di formulare la proposta di Costituzione da dibattere e approvare in aula. Le donne avevano ottenuto una rappresentanza maggiore (circa il 7%) nel gruppo di lavoro più significativo di quella particolare Assemblea in cui erano entrate nel 1946 e la loro presenza ebbe sicuramente, tanto in aula che nelle Commissioni, un peso maggiore di quanto le percentuali indicassero. Rispetto agli uomini, infatti, le donne rappresentavano non solo le istanze del partito nelle cui liste erano state elette, ma anche le istanze femminili, che erano decisamente ‘trasversali’: l’Assemblea costituente rappresentava per loro l’occasione irripetibile di cambiare, dal punto di vista giuridico, la condizione femminile che era in quel momento fortemente squilibrata. Sostenevano l’uguaglianza tra i sessi nel campo lavorativo e in quello familiare, sottolineando l’importanza di un sistema che tutelasse madri e figli per garantire la maternità, considerata fino a allora un elemento di forte discriminazione.
Provenivano quasi tutte dal mondo del lavoro e quasi tutte avevano avuto un ruolo significativo durante la Resistenza e l’avvio della ricostruzione dopo la Liberazione del paese; avevano chiaro, dunque, quanti e quali fossero i limiti che la legge da una parte e la società dall’altra imponevano alle donne. In un contesto sociale completamente cambiato dal ventennio fascista e dalla guerra, c’era la possibilità ed era necessario ‘inventare’ le nuove regole dello Stato pensando al futuro. Alle donne vennero affidati quei temi che si riteneva fossero a loro più vicini, quelli ritenuti più ‘femminili’, e sui quali avevano sicuramente più da dire rispetto agli uomini: la famiglia, la maternità e l’infanzia. Temi su cui le elette all’Assemblea, pur partendo da posizioni ideologiche diverse, trovarono soluzioni comuni grazie alla condivisione di un profondo senso di giustizia che voleva dire tutela dell’uguaglianza e solidarietà. Durante i dibattiti gli uomini ebbero atteggiamenti diversi nei confronti delle loro colleghe che passavano da una frequente diffidenza ad alcune manifestazioni di stima; non mancavano, comunque, i toni paternalistici ai quali le costituenti si opposero in modo deciso.
Una particolare attenzione venne rivolta al tema della famiglia, considerata dai partiti il punto di partenza per ricostruire il paese fortemente disgregato dagli eventi degli ultimi anni. Le donne avevano, rispetto ai colleghi uomini, un quadro più chiaro dei problemi che le famiglie dovevano affrontare e si adoperarono per sostenere e difendere i diritti femminili, a partire dall’uguaglianza dei coniugi. Di questo si occuparono direttamente le cinque deputate che facevano parte della Commissione dei 75. Nel corso dei lavori ci furono non pochi scontri con buona parte dei colleghi che sostenevano la necessità di un sistema gerarchico all’interno della famiglia e l’ovvietà che al vertice si trovasse il marito. Dopo l’elaborazione degli articoli, la discussione si spostò in aula dove le donne ribadirono quanto sostenuto dalle loro colleghe nelle Commissioni: uguali diritti per l’uomo e la donna anche in ambito familiare, misure concrete per la tutela della maternità e dei figli nati fuori dal matrimonio. Le costituenti sostennero compatte le loro posizioni, tranne che per qualche sfumatura, come per esempio sull’opportunità di definire nella Costituzione il matrimonio come indissolubile (principio che venne poi escluso dal testo definitivo).
Un altro tema molto importante era il lavoro, sul quale le costituenti ritenevano si dovesse intervenire fortemente per difendere e affermare i diritti delle donne: tutela della maternità, parità dei salari e pari opportunità nell’accesso a tutte professioni. Anche in questo caso gli interventi delle donne furono fondamentali tanto nei lavori della Commissione dei 75 quanto, successivamente, nel dibattito plenario. Particolarmente acceso fu la discussione relativa alla Magistratura e alle regole che ne stabilivano l’accesso: era questa una carriera che bisognava limitare se non escludere alle donne, troppo emotive e sensibili per svolgere il ruolo di giudice secondo la posizione totalmente discutibile, ma largamente condivisa in aula, di Leone. L’intervento della Federici, a nome anche delle colleghe, non fu sufficiente e neanche quello della Rossi, ma la scelta delle costituenti di mettere ai voti un doppio emendamento riuscì a garantire il risultato che le donne volevano raggiungere: bocciato quello della Rossi-Mattei che dichiarava esplicitamente il diritto femminile di accesso a tutti i gradi della Magistratura, passò quello della Federici che sopprimeva la parte limitante dell’articolo in discussione. Le costituenti intervennero anche in altri dibattiti, più generali e non specificatamente legati alla condizione femminile. In particolare, la Bianchi e la Bianchini presero parte alle discussioni sulla scuola; la Iotti e la Titomanlio a quelle sulle Regioni, mentre la Guidi si occupò anche dell’organizzazione internazionale del lavoro e dei problemi connessi all’aumento in Italia dell’emigrazione di tipo economico. Inoltre, parteciparono ai lavori di diverse Commissioni, da quelle legislative a quella per i trattati internazionali, oltre che alla già citata Commissione dei 75. Il risultato del loro lavoro e del loro impegno è testimoniato dalla Costituzione che entrò in vigore il 1° gennaio 1948, un documento fortemente innovativo in generale e in particolare per quanto riguarda la condizione femminile. Venivano affermati i principi che riconoscevano l’importanza del principio di uguaglianza per lo sviluppo di un paese moderno, che avrebbero consentito e sostenuto successivamente la necessità dell’adeguamento legislativo.”
Ruggero Alcanterini

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