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Le colonne di Anzio – EDITORIALE DEL DIRETTORE – RUGGERO ALCANTERINI

Dunque, mentre cresce in modo esponenziale l’aggressione mefitica dei fuochi tossici nel territorio pontino, siamo quasi arrivati al capolinea e le metafore della politica e dell’archeologia, entrambe soggette alle volubili passioni umane, fragili ma essenziali per la nostra storia di oggi, di ieri e soprattutto futura, si ripropongono in modo ossessivo, preoccupante. Sembra d’essere prigionieri di un circolo vizioso, di un labirinto di specchi apparentemente senza via d’uscita, perché puntualmente vecchi e nuovi protagonisti si ripropongono tarati da remore, mentre gli elettori migrano verso il non voto o la protesta a prescindere. E così fu per la visita di Papa Francesco, erede morale e materiale del “naufrago” Innocenzo XII, il Papa del Palio del Mare, con  un significato che andava ben oltre l’omaggio ai caduti dello sbarco alleato nel 1944.   E così, le colonne di Villa Adele sono passate da diciotto a trentuno, tra quelle in verticale e quelle in orizzontale, migrate da chissà quale antica dimora della “Costa Imperiale” ad una magione contemporanea  e quindi al Museo, tramite l’Arma dei Carabinieri. La notizia dell’ennesimo recupero di per se non sarebbe clamorosa, se non per il numero e le dimensioni dei reperti. Certo, come ricordato a suo tempo, sarebbe interessante perorare il ritorno a casa della Fanciulla d’Anzio, che rimane algida nella sua innaturale collocazione romana, sia pure nel piano nobile, di Palazzo Massimo. Diciamo che questa è l’occasione per ricordare quanto danno hanno fatto e fanno i compromessi in materia di tutela del patrimonio archeologico e ambientale, ma anche paradossalmente un dato oggettivo, ovvero che se qualcuno non coltivasse comunque una passione per le antichità, oggi non potremmo ammirare nei musei molte delle opere contenute. Infatti, quasi tutte le raccolte pubbliche si sono formate nel tempo sulla scorta di quelle private, frutto di mecenatismo, conoscenza e molto spesso di rapine. Per questo potremmo citare gli imperatori romani, Nerone compreso, piuttosto che Athanasius Kirker, Napoleone, Pio IX, gli inglesi che alleggerirono i Partenone o Hitler, che aveva razziato opere ovunque, durante la Seconda Guerra Mondiale. Bisognerebbe fare davvero una seria riflessione per capire, anche in base alla storia, il senso compiuto della conservazione dell’arte come testimonianza valoriale della presenza umana in positivo, ma anche in negativo.  Ieri i miliziani della enigmatica ISIS si accanivano sulle meraviglie di Palmira, mentre l’altro ieri i talebani polverizzavano le gigantesche statue di Budda in Afghanistan, ma non  ci dimentichiamo che al Bernini ordinarono lo smantellamento delle trabeazioni in bronzo del Pantheon per farne il Trono di San Pietro e cannoni per Castel Santangelo, dopo che per secoli la Roma dei Papi aveva riutilizzato mattoni e marmi della Roma dei Cesari, cancellandone in gran parte lo splendore, per farne strutture e ornamento, piuttosto che calce per costruire chiese e palazzi nobili. I Romani stessi fecero scempio di città ed opere etrusche, come per Veio e Volsinii, nel tentativo di cancellarne la memoria   sin dalle fondamenta.  L’altra notizia, sempre in materia di pezzi di storia nostra ritrovata, è che a Satricum si è ripreso a scavare tra i filari delle vigne di Casale del Giglio e puntualmente ci si è imbattuti in reperti legati alla atavica vocazione vitivinicola di quei terreni, recuperando quanto dedicato al culto di Mater Matuta e tra i corredi funerari le classiche kylix potorie, boccali, anforette.. Questo, sta a testimoniare come una auspicata ed auspicabile collaborazione con i cittadini potrebbe funzionare con beneficio della qualità del territorio e della collettività se ci fosse meno pressione burocratica, conciliando l’attività d’impresa con la cultura. Probabilmente la lunghezza infinita dei tempi, i poteri di veto a prescindere, l’inadeguatezza delle strutture e delle modalità preposte, la mancanza di una conoscenza  adeguata delle preesistenze archeologiche certe e presunte fanno si che si verifichino anche casi come quelli de La Gallinara , dove le attività edilizie private e la realizzazione di un depuratore hanno forse compromesso per sempre una delle zone strategiche del Litorale dal punto di vista storico, archeologico, ambientale. Ma quale è dunque il problema di fondo se non la necessità di un progetto generale che, basandosi sullo stato dell’arte e la vocazione naturale dei territori, sia mirato a restituire un futuro degno alle collettività dell’area a vocazione virgiliana,  che l’Area metropolitana di Roma e la Regione Lazio, piuttosto che Palazzo Chigi, tendono ad ignorare o addirittura a dimenticare?

 

Ruggero Alcanterini

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