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L’atletica e l’Europa, dal mito alla realtà Italica

L’atletica leggera va intesa come la pietra angolare di sistema per un paese che ambisce alla qualifica di civile e la misurazione del livello non avviene per numero di medaglie conquise e per gli ori tra di esse, ma in base alla diffusione essenziale della pratica, in ambito scolastico in tutti gli ordini e gradi, dalle materne alle università, piuttosto che nel sociale, con la più ampia diffusione territoriale, senza distinzione di sesso, censo, età e soprattutto di colore, religione o etnia. Questa, che è la caratteristica distintiva di una filosofia multidisciplinare, che accompagna la cultura dell’uomo nella sua accezione più ampia, compresa quella della salute e della bellezza fisica e mentale, dovrebbe accompagnare ed illuminare sempre le scelte di chi ha la fortuna e la responsabilità di promuovere, dirigere ed organizzare, soprattutto se il contesto offre la disponibilità di risorse a prescindere. A Berlino, uno dei caposaldi storici dello sport, non soltanto continentale, si tornano a misurare i migliori dell’Europa, compresi gli italiani, quasi tutti di fronte alla grande occasione, alla prova del nove, da cui ripartire per una possibile rinascenza, dopo un periodo invero complicato, opalescente. E vengo al dunque, perché pur salutando l’ascendente Tortu, lo stoico Tamberi e il redivivo Howe, il problema a mio modo di vedere è quello di avere il coraggio di rivendicare la leadership di un movimento, quello ispirato al diritto di praticare lo sport a prescindere, diritto al quale milioni di persone – escluse dal sistema così com’è – puntano e arrivano prevalentemente in modo empirico, con mezzi propri, partendo dalle attività motorie fondamentali, che guarda caso sono il camminare ed il correre. Gli sport di squadra rappresentano una fase successiva con modalità complesse, mentre l’atletica ha il ruolo, il dovere e se vogliamo la straordinaria responsabilità di rappresentare quel primo possibile passaggio dall’agnostico all’attivo, al partecipativo. Questo vale per tutti, anche per chi dirige, insegna, controlla, monitora la salute. Sono convinto che dagli Europei di Berlino la FIDAL e lo sport italiano torneranno rinfrancati, ma paradossalmente il rischio che si corre è che ci si rimetta seduti, soddisfatti di essere andati sul podio o di aver migliorato livelli tecnici. Certo che avere delle bandiere da far sventolare, dei campioni italici con cui competere ai massimi livelli , diventa come ben sappiamo miscela per rendere attrattiva l’attività, per dare forza e significato ad un progetto, ma non basta. Io credo che ci sia bisogno di una visione geniale, di una scelta coraggiosa, indispensabile da parte dello sport italiano, che per antica legge ha il privilegio e la condanna ad essere esso stesso responsabile del proprio destino, delegato dallo Stato anche ad un ruolo, che in altri termini e paesi spetta in genere ai governi ed i loro ministeri. Voi mi direte, ma che centra questa storia con Filippo Tortu, che martedì sarà già in semifinale per meriti acquisiti. Infatti non c’entra, come non c’entrava Howe, come non c’entra Tamberi , tutti allenati dai genitori, piuttosto che Mennea, addirittura lasciato solo con la dote di madre natura sino agli Europei di Helsinki nel 1971… Per dire che la fortuna o il caso, particolari condizioni, combinazioni chimiche non sempre possibili, possono consentire a qualche talento di manifestarsi, ma il grosso del lavoro, la massa critica , cui dedicarsi per rendere un servizio alla società civile e poi cogliere magari medaglie in più, dovrebbero passare per la cruna di qualche ago da recuperare a quel lavoro sartoriale, che avevano iniziato personaggi come Ridolfi, Saini e Zauli, e che era infine sfociato alla fine degli anni sessanta nei Giochi della Gioventù, formula condivisa con i comuni, con indubbio vantaggio e risultati di base e vertice, in cui l’atletica era il perno, l’albero motore. D’altra parte, voglio ricordare che non a caso la prima edizione della storia dei Campionati Europei si svolse a Torino nel 1934 e la seconda per mano italiana a Roma, nel 1974, giusto quarant’anni dopo e per l’ambizione di una FIDAL a trazione Nebiolo, che avrebbe realizzato la rivoluzione copernicana dei Campionati del Mondo e della Diamond League, collegando i principali meeting e polarizzando risorse mediatiche ed economiche, che prima erano sconosciute nella visione anglosassone , purista e ingessata che aveva la vecchia IAAF. E’ pur vero che alcune “esuberanze” portarono ad una improvvida catarsi, proprio nel momento del massimo successo, nel 1987, quando in piena controtendenza i “Mondiali” costarono appena un terzo dei ricavi . In quel caso si era chiuso un ciclo quasi ventennale, incompleto per quello che doveva essere lo sviluppo orizzontale del “Movimento di Rinnovamento”, con numeri diversi per l’attività amatoriale e peso strategico nel CONI, dove l’operazione “Gattai” fu speculare ad interessi inconfessabili, ma evidenti, collidenti con le caratteristiche di un leader assoluto com’era appunto il Presidente dell’atletica italiana, internazionale e non solo, Primo Nebiolo. Credo, dunque, fermamente che tutto possa avvenire per volontà e determinazione degli uomini, anche le cose peggiori, ma diversamente io auspico le migliori, recuperando la lucidità necessaria in un momento che potrebbe essere straordinariamente favorevole. E mi spiego meglio: il Governo attuale del Paese, attraverso il Sottosegretario con delega allo sport, Giorgetti, ha prospettato la valorizzazione del profilo sociale e salutistico della pratica sportiva, con introduzione dell’attività motoria nelle scuole primarie, con l’impiego dei laureati in scienze motorie; il ministro della Pubblica Istruzione, Bussetti, è un laureato in scienze motorie, che nel ruolo di dirigente ha seguito per anni con attenzione ed empatia gli esemplificativi Trofei di Milano, che da cinquantacinque anni riempiono l’Arena di ragazzini ed atletica, con un modello di evento la cui sostenibilità è comprovata e potrebbe essere diffusa ogni dove nel Bel Paese; durante gli Stati Generali dello Sport , qualcuno aveva rivendicato l’dea di una riforma costituzionale riguardante lo sport e qualcun’altro aveva annunciato proprio la riedizione dei Giochi della Gioventù. In attesa di una riforma ragionata della materia sportiva, che sarebbe davvero storica, dopo l’invenzione di Lando Ferretti ed Augusto Turati datata 1927, il mondo dello sport, senza timidezze, dovrebbe affrontare complessivamente il tema delle sue naturali responsabilità, degli aspetti educativi e formativi che sono di fatto in capo alle singole associazioni, enti e federazioni, al CONI, ma in particolare alla FIDAL, che in Italia è erede in linea diretta di chi duemila ottocento anni fa concepì l’educazione al gesto atletico ed i giochi, come la linea di demarcazione, come il segnale evolutivo certo di quella cultura, che contraddistinse ed illuminò lo stesso “dimenticato” Francesco De Sanctis, appunto quella cultura che amiamo definire classica e che ha partorito la stessa Europa, dal mito alla complicata realtà attuale.

Ruggero Alcanterini

Direttore responsabile de L’Eco del Litorale

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