Come si suol dire: “Tanto tuonò, che piovve!” Il pronunciamento della Corte Costituzionale sulla non punibilità per chi “agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli” sta scatenando una tempesta nell’immaginario collettivo, rinnovando implicitamente l’interrogativo di base che ci sospinge vita natural durante, il dubbio da sciogliere con il trapasso, circa il valore della “pena” di vivere. Di certo i nostri progenitori, in chiave filosofica, religiosa o istituzionale il problema se lo ponevano e come, se il suicidio veniva condannato come una grave rinuncia, un abbandono del ruolo e della dignità, salvo l’imperativo della libertà, anzi con l’anelito alla prosecuzione nell’aldilà, con la pervicace ricerca dell’immortalità, almeno virtuale, attraverso le testimonianze e la memoria tra i discendenti. «[…] E mi sovvien l’eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s’annega il pensier mio.» Scriveva Giacomo Leopardi, memore della ciclica formula platonica sull’eterno ritorno, senza lo scandire del tempo cronologico. Ecco, di fronte all’immensità senza confini del vivere, di essere comunque protagonisti nel tempo e nello spazio, se le catastrofi passate, vissute e annunciate per il pianeta e l’umanità che parassitariamente vi alligna, adesso sono tema per uno straordinario assembleare recitare a soggetto tra i rappresentanti delle nazioni e i “millennial”, discettare sul dolore di chi sopravvive malgrado la propria volontà di abbandono e di chi lo aiuta a lasciare, sembra quasi un eccesso fuori luogo, un lusso esagerato in tempi difficili. E invece no! Penso che tutto alla fine abbia un senso, che porre in mano, a chi la chiede, la salvifica Ankh , l’antico egizio uroboros, la chiave per accedere a ciò che non ha né inizio, né fine, sia fondamentale. La medievale visione dantesca poneva le vicende suicidarie nei gironi infernali, salvando in purgatorio giusto Catone: “Or ti piaccia gradir la sua venuta: libertà va cercando, ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta.” Diversamente, oggi, accanirsi su singole situazioni, episodi specifici, storie esemplari come quella più recente di Dj Fabo o quella meno di Eluana Englaro, significa eludere il nodo essenziale, quello del principio di libertà, che deve e può ispirare la decisione estrema, come la volontà di resistere, ma che spesso viene cinicamente ignorata, calpestata. Quando venti anni fa, i medici mi comunicarono di non voler procedere nelle cure per evitare un inutile accanimento terapeutico, presi la mano di mio padre – dichiarato in coma – lui, smentendo la diagnosi, ebbe la forza di rispondermi con due quasi impercettibili pressioni del pollice destro. Nell’orecchio gli avevo sussurrato: “ Papà, mi senti, vuoi essere curato?”. Tolte le flebo, sospese le cure, mio padre, in un nosocomio a vista dello specchio di Diana, del Lago di Nemi, suo malgrado, spirò il giorno dopo.
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