Oggi alle Terme di Caracalla 17a edizione della “Race for de cure – Susan G. Komen – Italia”. Migliaia di donne insieme per la lotta contro i tumori al seno e non soltanto. Lo sport come momento d’incontro in un altro luogo simbolo di Roma, le Terme di Caracalla (la costruzione del complesso fu avviata nel 206 da Settimio Severo, capostipite della dinastia dei Severi; le terme furono inaugurate nel 216 da suo figlio Caracalla, salito al trono nel 211).
Per l’approvvigionamento idrico delle terme nel 212 fu creata una diramazione dell’Acqua Marcia, chiamata aqua Antoniniana, che valicava la via Appia appoggiandosi sul preesistente Arco di Druso.
Dall’abbandono nel VI secolo non venne però mai meno lo sfruttamento dei ruderi come cava per materiali anche di pregio (marmi e metalli) e per intere strutture (architravi, colonne, ecc.) da riutilizzare per l’edilizia di qualità: il Duomo di Pisa e la basilica di Santa Maria in Trastevere contengono, ad esempio, strutture architettoniche prelevate dall’area termale. Nelle Terme di Caracalla vennero ospitate le gare di ginnastica delle Olimpiadi di Roma del 1960. Ma affidiamoci ancora ai versi di Giosuè Carducci per rendere omaggio alle donne in rosa della ” Susan Komen Race” e alle stesse Terme, sempre da Le Odi Barbare:
Corron tra ’l Celio fósche e l’Aventino
le nubi: il vento dal pian tristo move
umido: in fondo stanno i monti albani
bianchi di neve.
A le cineree trecce alzato il velo
verde, nel libro una britanna cerca
queste minacce di romane mura
al cielo e al tempo.
Continui, densi, neri, crocidanti
versansi i corvi come fluttuando
contro i due muri ch’a piú ardua sfida
levansi enormi.
“Vecchi giganti, – par che insista irato
l’augure stormo – a che tentate il cielo?„
Grave per l’aure vien da Laterano
suon di campane.
Ed un ciociaro, nel mantello avvolto,
grave fischiando tra la folta barba,
passa e non guarda. Febbre, io qui t’invoco,
nume presente.
Se ti fûr cari i grandi occhi piangenti
e de le madri le protese braccia
te deprecanti, o dea, da ’l reclinato
capo de i figli:
se ti fu cara su ’l Palazio eccelso
l’ara vetusta (ancor lambiva il Tebro
l’evandrio colle, e veleggiando a sera
tra ’l Campidoglio
e l’Aventino il reduce quirite
guardava in alto la città quadrata
dal sole arrisa, e mormorava un lento
saturnio carme);
Febbre, m’ascolta. Gli uomini novelli
quinci respingi e lor picciole cose:
religïoso è questo orror: la dea
Roma qui dorme.
Poggiata il capo al Palatino augusto,
tra ’l Celio aperte e l’Aventin le braccia,
per la Capena i forti ómeri stende a l’Appia via.