PENSO A MIO CUGINO CHE E’ MORTO NEL SONNO, GIUSTO
ANNI FA A KATHMANDU. LUI AMAVA IL NEPAL E VI PASSAVA PARTE DELLA VITA. BISOGNA CAPIRE CHE ESISTE UNA FORZA MISTERIOSA CHE CI SOSPINGE VERSO GLI APPUNTAMENTI CON IL DESTINO, APPUNTO LA “FORZA DEL DESTINO”, TEMA CUI GIUSEPPE VERDI HA RISERVATO PARTE DEL SUO STRAORDINARIO GENIO CREATIVO. Per questo, quando Pino Carfì mi ha ricordato l’opportunità di richiamare da Borea, qui tra noi mortali, il “Profeta” Alfredo Berra, gli ho risposto affermativamente e il “momento giusto” è giunto nell’arco di ventiquattro ore. Diciamo che ho pensato al Berra che ho conosciuto nel 1956 allo Stadio della Farnesina, glabro, magro, con una camicia a quadri, il cronometro in mano, posizionato sul traguardo, attorniato da una moltitudine eterogenea. Io desideravo calcare la tennisolite di quella pista, dopo aver provato la carbonella dello Stadio dei Marmi, ma finii intercettato a metà percorso e nel prato da Corbò, con Scioscioli e i fratelli Bossa, riuniti nella P.A.T., Polisportiva Atletica Trieste, che avrebbe avuto poi discrete fortune giustappunto nell’hockey prato. Quando, dopo qualche tempo, tra un allungo e l’altro, presi coraggio e mi feci avanti, fui di nuovo intercettato da Leopoldo Marcotullio, ancora saltatore in alto con stile frontale e futuro tecnico di ostacolisti di vaglia. Io arrivavo da esperienze di quartiere, da Piazzale Clodio (conteso tra il Luna Park con il suo Arco in cemento armato ispirato alla E42, la prima Fiera Campionaria e l’Oratorio della mia Parrocchia, S. Lucia, di cui era parroco Mons. Ettore Cunial, un energico prete di Conegliano Veneto, destinato alla carriera ecclesiastica, quindi Vescovo e Vice Gerente di Roma, ai tempi di Pio XII). Sento il bisogno di contestualizzare il personaggio Berra, perchè appariva effettivamente diverso e dotato di un carisma particolare. Del resto, se ne era accorto per primo Bruno Zauli, che lo aveva voluto a Roma, alla FIDAL e al Corriere dello Sport, condividendolo con l’UISP. Quello che oggi appare un sogno irrealizzabile, la polarizzazione dell’interesse degli studenti e dell’intero mondo della scuola per lo sport e in particolare per l’atletica leggera, era allora moneta corrente e a Roma si godeva della sua apoteosi. Diciamo che se Alfredo Berra aveva avviato la sua “Scuola”, come Pitagora a Crotone, lo aveva fatto gettando il seme in un terreno davvero fertile. Voglio dire, che quando lui riuniva e formava intorno a se decine di atleti, tecnici e dirigenti eccellenti, contaminandone migliaia attraverso il Palio dei Quartieri e la Coppa Speranze, allo Stadio Olimpico confluivano cinquantamila studenti per esaltarsi delle gesta di Piero Lehner, Giorgio Logiudice, Egidio Leoni, Lorenzo Miroli, Gilberto Chini, ma soprattutto di Ugo Sabatini (allenato da Oscar Barletta) Maurizio Notarangelo e Giovanni Scavo. Diciamo che Bruno Zauli, Giorgio Oberweger, Pasquale Stassano (braccio destro di Zauli alla FIDAL) e Marcello Garroni (Vice Segretario Generale del CONI, ideatore della Scuola Nazionale dello Sport) trepidavano coinvolti in quel tripudio di giovane folla gioiosa, nella speranza che l’atletica rinvenisse nuovi talenti. Devo dire che io seguivo le gesta di Notarangelo e Lehner attraverso i fratelli minori, miei compagni di scuola e che ero affascinato da Giovanni Scavo, che dopo il trionfo del 1954 all’Olimpico, venne subito inquadrato come un cursore di classe diversa, un mezzofondista veloce, erede dello stesso Mario Lanzi, che lo ebbe in cura tecnica, mentre cambiava maglia dall’ACLI Velletri al CUS Roma, all’A.S.Roma, quindi alle Assicurazioni Generali di Palermo, dove il Presidente Ridolfi lo scongiurava di non andare e dove avrebbe incontrato una prematura tragica morte a cavallo di una moto in quel di Mondello, alla vigilia della Pasqua dell’atleta del 1959. Non so per quale vera ragione lui finì per fare sodalizio con il mio amico Bommarito,nella lontana Sicilia, piuttosto che rimanere a Roma; se l’impiego delle Generali fosse più gratificante di quello propostogli dal Marchese, già mentore di Arturo Maffei, o se le ragioni fossero del cuore, ma è certo che, sfiorato per soli due decimi lo storico record di Mario Lanzi sugli 800, già nel 1957, quando con il suo competitor Gianfranco Baraldi era in vista della sua consacrazione ai Giochi di Roma, a ventidue anni, Giovanni andò dritto, dritto incontro alla fatale “forza del destino”. Devo dire, che un talent scout come Berra, al primo impatto con Giovanni Scavo, ai provinciali di cross in quel di Tor di Quinto, nell’inverno 1953/54, non cadde in errore e scrisse sul Corriere dello Sport: “Piglio e autorità del campione quelli di Scavo, lo studente veliterno, campione delle scuole romane per il 1954. La sua gara è apparsa tale da giustificare qualunque buona cosa si sia detta di lui. Gilberto Chini del “Quintino Sella” ha voluto tentare la via della vittoria buttadosi allo sbaraglio, dopo poche centinaia di metri di corsa. Scavo, asciutto, accigliato, quasi cattivo nel bello sforzo,gli andò dietro e più Chini spingeva meno egli cedeva; ancora, se l’atleta in maglia verde sentiva il vuotarsi delle proprie energie, Scavo avvertiva con sempre minor tocco al suolo le spinte degli inseguitori, nessuno dei quali, ammesso che l’avesse tentato, era riuscito a svincolarsi dalla paura generale per vedere di accodarsi ai fuggitivi…”.