Giusto un anno fa, nel giorno successivo del ritorno della guerra in Europa, sentivo il bisogno di richiamare in campo Seneca, anche come autore di uno straordinario concetto per la misura nel tempo, inteso come valore risultante incommensurabile, meritevole del più assoluto rispetto. Ecco, se noi continuiamo a perdere la vita, attimo dopo attimo, nel modo peggiore, quello della inazione, nella consapevolezza che … tutto il resto è noia, abbiamo come alternativa la scelta di agire per il meglio e il massimo, per quello che può portare ad ognuno di noi gratificazione con relativo onore al merito. Ecco perché la massima condanna – dopo la “damnatio memoriae” e la perdita in toto della vita, per mano propria o degli altri – è quella della sottrazione della libertà e quindi del tempo. Ecco perché la massima colpa è quella di sottrarre indebitamente vita, libertà e tempo alla collettività, intendendo per essa non soltanto quella degli umani, ma l’universo mondo che viene coinvolto. Seneca rappresentava senza mezzi termini quanto fosse già allora perversa e dannosa, senza riparo, ogni perdita del tempo, prezioso e insostituibile, carpito con frode ed ancora peggio per incuria. Ecco perché l’idea di dare tempo al tempo, di esasperare la devastante palude della burocrazia, al fine di eludere responsabilità e creare paradossali realtà virtuali ad “usum dephini” è doppiamente grave.
Lucio Anneo Seneca, ispiratore dello stesso Shakespeare padre del concetto di “fair play”, al suo antico discepolo, Lucilio, nativo di Pompei e procuratore imperiale in Sicilia, tra le centoventiquattro “Epistulae Morales”, dedicategli tra il 62 e il 65 d. C, raccomandava appunto di dare il giusto valore al tempo: “Comportati così, Lucilio mio: renditi padrone di te stesso e raccogli e fa tesoro del tempo che fino ad oggi ti è stato portato via o carpito con frode o è andato perduto. Convinciti che è proprio come ti scrivo: certi momenti ci vengono portati via brutalmente, altri sottratti subdolamente e altri ancora si disperdono. Ma la cosa più vergognosa è perder tempo per incuria. E se ci pensi bene, osserva: della nostra esistenza buona parte se ne va mentre operiamo malamente, la maggior parte nel non far niente e tutta quanta nell’occuparci di cose che non ci riguardano.
Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo e alla sua giornata, che capisca di morire ogni giorno? Ecco il nostro errore: vediamo la morte davanti a noi e invece gran parte di essa è già alle nostre spalle: appartiene alla morte la vita passata. Dunque, Lucilio caro, fai quel che mi scrivi: metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro, se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l’altro la vita se ne va. Niente ci appartiene, Lucilio, solo il tempo è nostro. La natura ci ha reso padroni di questo solo bene, fuggevole e labile: chiunque voglia può privarcene. Gli uomini sono tanto sciocchi che se ottengono beni insignificanti, di nessun valore e in ogni caso compensabili, accettano che vengano loro messi in conto e, invece, nessuno pensa di dover niente per il tempo che ha ricevuto, quando è proprio l’unica cosa che neppure una persona riconoscente può restituire.”
William Shakespeare dedicava al tempo il dodicesimo sonetto:
“Quando conto l’orologio che racconta il tempo,
e vedo il giorno superbo sprofondato nell’odiosa notte;
quando osservo la viola non più in fiore,
e riccioli neri tutti inargentati di bianco;
quando alberi sublimi vedo nudi di foglie
che già al gregge schermarono la calura,
e il verde dell’estate, stretto in covoni,
portato sul carro con bianca ed ispida barba;
allora sulla tua bellezza mi vado interrogando,
che tra i resti del tempo te ne dovrai andare,
perché dolcezze e bellezze smarriscono se stesse
e muoiono veloci come altre ne vedono crescere veloci;
e niente contro la falce del Tempo può offrire difesa,
se non la prole che lo sfidi, quando ti toglierà di qui. “