Confesso di essere innamorato del calcio, pur essendo sposato da sempre all’atletica leggera. Sono innamorato dell’aspetto epico del football, che riesce a manifestarsi tal quale a quello straordinario irresistibile delle corse a tappe in bici o della maratona di corsa, naturalmente a piedi, ma in un contesto concluso. Sì appunto, l’aspetto epico, quello trasudante sentimento di appartenenza e voglia di riscatto, di vincere anche quando tutto sembra perduto. La particolare straordinaria fortuna del calcio, anche nella sua versione televisiva, sta nella rappresentazione teatrale, scenografica, spettacolare di un evento unico e irripetibile in un luogo deputato, come lo stadio. Nello stadio, dove si concentrano sentimenti e pulsioni, spesso liberi da freni inibitori, emozioni altrimenti diffuse lungo chilometri di virtuosismi e sofferenze, sono diversamente percepibili in quell’empatico diretto che si materializza come per magia con manifestazioni di gioia e disperazione, di rabbia e tripudio, d’amore e violenza nell’alternarsi di vicende, la cui prevedibilità è relativa al punto di renderne discutibili gli esiti. Ecco, ieri, ho avuto la percezione netta, la conferma che l’esaltazione di tutto questo sia possibile grazie alla sapienza tecnica, ma soprattutto a quel genio speciale combinato di temperanza, intuizione e coraggio, raro segno distintivo della classe soprattutto tra gli allenatori o se preferite i “mister” del calcio. Ieri, Eusebio Di Francesco, come magistralmente seppero fare Fulvio Bernardini e Arpad Weisz, entrambi mentori del grande Meazza, nelle loro ineguagliabili carriere, luminose e drammatiche, ha avuto per l’ennesima volta la capacità di sovvertire un esito avviato alla catastrofe, cambiando genialmente l’assetto dell’A.S. Roma in campo, portandola ad una spettacolare rimonta e al pareggio con l’Atalanta, come già avvenne con il Barcellona ed il Liverpool . Spettacolarità di una impresa senza inghippi, senza moine, fatta di cuori oltre l’ostacolo, di azioni finalizzate unicamente alla sintesi del gol, che ha fatto si che andassero a rete il redivivo Florenzi e il difensore-attaccante Manolas, dopo il primo colpo in batteria di Pastore, latore di fresco sicuro talento. Ma, come mai un incallito dell’atletica, come me, si attizza sul calcio, dopo una partita di campionato? La risposta è che ho ben chiara l’idea o se preferite il paradosso, che da noi il calcio ha un ruolo sociale irrinunciabile e influente sugli atteggiamenti di collettività, che pur sempre vivono intorno ai campanili o alle torri civiche. Il sentimento di appartenenza, in mancanza di altre motivazioni forti o in presenza di delusioni e problemi anche gravi (com’è accaduto anche per il tragico crollo del Ponte sul Polcevera a Genova) si determina ritualmente con colori, motteggi e rigurgiti umorali, proprio inseguendo le naturali improbabilità di giuoco del pallone, a volte probabilità o addirittura certezze per merito di geni in panchina . Proprio per questo, avvertendo in Eusebio Di Francesco l’animus talentuoso che contraddistingue i grandi tecnici dello sport, ho sentito il bisogno di esternare il mio pensiero, di accostarlo a Bernardini e al non meno grande, ma sfortunato Weisz (ebreo finì ad Auschwitz nel 1942) di farlo al di fuori di ogni condizionamento di parte, con assoluto spirito di fair play.
Ruggero Alcanterini
Direttore responsabile de L’Eco del Litorale
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