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EDITORIALE DEL DIRETTORE – TRENTUNO ANNI DOPO LA CADUTA DEL MURO, NECESSITA LA DEMOCRAZIA DEL MERITO

Di Ruggero Alcanterini

 

TRENTUNO ANNI DOPO LA CADUTA DEL MURO, NECESSITA LA DEMOCRAZIA DEL MERITO – Siamo entrati nel trentaduesimo anno dalla caduta del muro di Berlino. Quante cose ci sono cadute addosso, quante speranze vanificate, quante promesse disattese, quanti inganni subiti dalla collettività sul Pianeta sempre più compromesso. Caduto l’aggregante ideologico – a destra come a sinistra – non si sono liberate pace e prosperità, il principio del merito, ma il trionfo dell’economia pelosa, fondata sulla strategia dell’odio e sul saccheggio distruttivo della natura. Ecco, questa la situazione contestualizzata nel cinismo di chi detiene il potere, delle armi, della comunicazione, come dei vaccini, nel mondo, mentre il Bel Paese che fu quinta potenza nel Pianeta, da trent’anni si misura e si diletta al quadro svedese, piuttosto che sul cavallo con maniglie dell’alchimia politica. Una perversa combinazione chimica scientemente alterata, una imperante ipertrofica paralizzante burocrazia, corpi separati ormai senza inconfessabili freni inibitori, ingiustizia sociale conclamata da reddito senza lavoro e da terza età privata dei diritti, ovvero in qualche modo un sistema basato sulla quantità del consenso ipotizzabile per sondaggio, per coalizioni di sostegno e tra raggruppamenti di fortuna, partiti e movimenti di riferimento per una società civile stressata e disorientata. Parti e fazioni impegnate in una infinita partita a scacchi, stante l’obiettivo condiviso da tutti o quasi di salvare, con l’algida Presidenza della Repubblica e la declassata XVIII Legislatura, anche poltrone, poltroncine, incarichi di sottogoverno e relativi appannaggi, sino a formale scadenza ed oltre. Poi, a fronte degli ammiccamenti del “Rosatellum Ter” o della nuova Legge Elettorale che verrà a dirimere tra “proporzionale” e “maggioritario”, necessaria per tenere in piedi futuribili aggregazioni e giochi di maggioranza e opposizione, con l’attuale Parlamento dimezzato e il debito pubblico in progressione geometrica, non possiamo esimermi dal ricordo liberatorio di chi della politica aveva fatto una missione basata su principi ed ideali, sino a perderci la vita, piuttosto che la faccia, da Carlo Pisacane, ai fratelli Rosselli, a Giacomo Matteotti, allo stesso Aldo Moro. Questo non soltanto come atto dovuto, ma perché ci sembra chiara la linea di continuità tra le pulsioni che hanno determinato prima l’unità post risorgimentale del Regno e poi la democrazia post fascista della Repubblica. Nei vari passaggi, tra cui due guerre mondiali e milioni di morti, ricordiamo ancora e sempre il primato della politica, ma quella degli ideali, quella che ha determinato anche la nostra straordinaria rinascenza tra il 1947 e il 1989 , frutto dell’impegno prevalente di menti illuminate, di uomini di straordinaria statura morale, disposti al sacrificio degli interessi personali per quelli della collettività. A contare, nel bene e nel male, era comunque la qualità, seppure distillata nei tortuosi meandri di una società civile tormentata da dubbi e aggredita da fattori inquinanti, che non escludevano malversazioni e terrorismo, sempre all’ombra di quella che convenzionalmente chiamavamo “Guerra Fredda”, ma che era pur sempre guerra e non meno pericolosa delle altre. Francamente, per chi ha dato un modesto apporto al lavoro di costruzione di quella che pensavamo essere la “Repubblica”, poi con avvilente superficialità declassata a “prima”, è davvero difficile considerare di qualità il livello della “seconda”, alla luce di quanto accaduto in questo frattempo. Diciamo che la linea di demarcazione tra il prima e il dopo, tra la prima e la seconda fase della nostra esperienza “laica”, riproposta nel 1942 per impegno e capacità dei campioni del civismo, dei genieri costruttori del pensare europeo, dei campioni dell’agire – ovvero degli “azionisti” come Federico Comandini, Guido Calogero, Ugo La Malfa, Mario Vinciguerra, Edoardo Volterra, Franco Mercurelli, Vittorio Albasini Scrosati, e Alberto Damiani attivi nella clandestinità – è da identificare con lo tsunami di un cambiamento epocale , con la caduta repentina del comunismo con tutti i suoi simboli ed armamentari finiti di colpo in soffitta. Quella caduta anche convenzionale del ”Muro”, paradossalmente legittimò nel clima della festa anche operazioni disinvolte , che cominciarono a determinare crepe e fessurazioni, squilibri e sconvolgimenti nel sistema dei pesi e contrappesi costituzionali italiani, tanto quanto di quelli della architettura dell’Unione Europea, tutt’ora ben lontana dalla Federazione, dagli Stati Uniti d’Europa immaginati da Mazzini e Spinelli. Quel che è accaduto non soltanto in Italia, ma soprattutto da noi, tra il 1992 e il 1994, ci ha segnato profondamente, come l’esito di un ictus, da cui rimane complicato riprendersi. Adesso noi, poveri mortali persi nelle incognite del ventunesimo secolo, ci troviamo di fronte a scenari davvero sconcertanti, palesemente deviati e devianti, pandemici, che meriterebbero l’espressione dantesca “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura … ”. Adesso sarebbe impensabile perdersi in minuetti sulla qualità del viaggio, mentre la nave affonda, eppure sta avvenendo. Credo che la tendenziale rinuncia all’espressione del voto, negli ultimi anni, sia stata anche un vulnus grave per una società che ambisce a dichiararsi civile, il sintomo palese di uno stato di disagio profondo, determinato proprio dalla banalizzazione della politica e dei suoi protagonisti, dallo svuotamento dei contenuti e dallo stravolgimento continuo e disinvolto delle regole. La mancanza di qualità ne è la conseguenza, ma anche la causa. Sicuramente è venuto il momento di riflettere ed agire, indipendentemente da stucchevoli inutili sofismi. Penso che Il tempo degli eccessi di temperanza sia finito per lasciare il posto alla determinazione, alla concretezza e finanche al coraggio, appunto quello dell’agire, di governare, se ci sono i numeri o di tornare alle urne in caso contrario, usando la bussola della ovvietà, ma anche del buon senso, recuperando i sani principi della giustizia sociale e quelli fondamentali della meritocrazia.

 

 

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