Di Ruggero Alcanterini
L’INDUSTRIA DELLE ROVINE – Lo spunto, che cogliamo noi, come i vertici dell’ONA e del CNIFP, di chi è attento alla salvaguardia della nostra qualità di vita, è più di un calcio nel ventre, di un insulto gastrico violento, perché si tratta di una rappresentazione monumentale della insipienza e della stupidità del sistema, senza salvezza per nessuno dei coattori istituzionali, per non parlare dei privati, senza discriminazioni di collocazione nel tempo e nello spazio. In poche parole, non possiamo parlare di ripresa, di ritorno alla normalità di un Paese straordinariamente importante per la cultura universale, com’è il nostro, se non facciamo chiarezza su di una questione di fondo, nodale, quella che la forma e l’aspetto sono sostanza e che non ci possiamo consentire il permanere di orrori, come quelli che deturpano e contraddicono la nostra vocazione alla rinascenza, che sono ormai ovunque. E veniamo a quello che diviene addirittura esemplificativo del concetto, perché si tratta di una esagerata rappresentazione di quel che s’intende per cattedrale nel deserto, di ecomostro e di luogo del disagio sociale, ancorché combinato chimicamente con la sua anima in amianto, coi rifiuti tossici dell’antica vocazione industriale , con il pattume e le sedimentazioni antropiche di una umanità in disfacimento, perché si tratta di quel che era un simbolo del riscatto italico nel dopoguerra, la Leo – Industrie Chimiche Farmaceutiche Roma, destinata alla più grande produzione di penicillina in Europa, inaugurata personalmente dall’insignito del Premio Nobel, Alexander Fleming. Dunque, oggi come ieri e qualche mese fa, si torna a parlare e discutere di un complesso di ben quattro ettari rimasto in stato di abbandono per un trentennio e adesso oggetto di attenzioni e interventi per aver superato la soglia limite mediatica, stante l’occupazione abusiva dei disperati in cerca di ricovero e gli accadimenti negativi inesorabilmente collegati. E’ ovvio ed evidente che siamo di fronte all’ennesima situazione d’emergenza e che l’alternativa allo stato dell’arte, alla alta pericolosità che si è determinata, non dovrebbe che essere la messa in sicurezza, salvo la bonifica e quindi il recupero almeno dell’area, se non dei manufatti. Diciamo che saremmo di fronte alla banalità, se non si trattasse di un eclatante simbolico richiamo delle centinaia di situazioni romane, piuttosto che delle decine di migliaia o meglio innumerevoli criticità strutturali diffuse sull’intero territorio nazionale, che quasi sempre vedono in perversa sintonia il degrado urbanistico con quello ambientale e sociale. Il masochismo che sembra aver condizionato l’orientamento politico amministrativo negli ultimi venticinque anni, la saturazione di ogni margine giustificativo a ritardi e distrazioni, lo sfaldamento del sistema industriale nei territori non più sostenuti dal finanziamento pubblico nazionale ed europeo, la incongruenza della burocrazia e l’inadeguatezza di progettualità e controlli, la mancanza di una cultura del rispetto ambientale e della salute, il disorientamento sociale legato al deperimento economico, hanno creato una bolla nella quale è cresciuta come la gramigna quella che possiamo considerare una forma consolidata delle variabili industriali, quella delle rovine. Ovunque, quel che resta, come macerie della filosofia del fare e disfare senza rispetto delle regole, richiama l’urgenza, la inderogabilità di una risposta adeguata. Ecco, dunque, emergere la prospettiva estremamente seria di un impegno progettuale e programmatico, un necessario fronte della rinascenza, che veda insieme le forze sane ed attive del Paese, di cui l’Osservatorio Nazionale Amianto è da considerarsi a ragione un pilone in prima linea.
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