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ECO REMEMBER Giorgio de Tommaso 9 FEBBRAIO 2018

 

GLI OTTANTA ANNI

 

DI AUGUSTO FRASCA

 

decano giornalista dell’Atletica:

 

sport dove non esistono i bianchi e i neri ma gli atleti

 

I primi ottanta anni Augusto Frasca, saggista e storico dello Sport tra i più raffinati, li ha festeggiati con i suoi più stretti amici (tra i quali Ruggero Alcanterini, presidente del CNIFP ) e collaboratori del mondo dell’atletica: sport al quale ha dedicato tutta la sua vita professionale con tanti articoli e numerose pubblicazioni. Nella prefazione al libro di Marco Franzelli “ Otto x 100 da Owens a Bolt” Frasca descrive la magia di questo sport, il più nobile, il più antico, che, nei secoli, ha incarnato sempre la uguaglianza fra i popoli, dove il colore della pelle e la “razza” non hanno mai avuto nessuna importanza. Conta solo il primato. Anzi nell’atletica la supremazia dei neri è, da tantissimi anni, talmente forte, che oramai ci stupiamo quando a vincere è un bianco.

 

“ L’evocazione del passato” – scrive Augusto Frasca – “è spesso un rifugio dei sentimenti. Male che vada, un esercizio di memoria. Con lucidità, con prudenza, con eleganza, Marco Franzelli mette in fila una summa antologica della velocità. Una sfida metafisica, di pura astrazione, tra otto protagonisti nella storia olimpica dei 100 metri. Vale a dire quanto di più esclusivo esista tra le prove atletiche, la stessa che esteti del gesto umano non esitano a definire l’alfa della pratica agonistica.

 

Come tutte le classifiche affidate al giudizio personale, l’impresa era esposta al rischio. Poteva, ma non lo è stato. Ho consultato più volte elenchi e vicende umane dei vincitori olimpici, a partire da Thomas Burke, il bostoniano che il 10 aprile 1896, in 12 secondi netti, mise la firma sul traguardo ateniese del Panathinaikon, tre giorni dopo l’affermazione, unica nella storia olimpica, sui 400 metri, e un anno avanti che inventasse e corresse sulle strade di casa la più antica delle moderne maratone.

 

Per obiettività di ricerca, per importanza dei personaggi identificati, per datazione storica, per conservazione evocativa, l’elenco è questo: Abrahams, Owens, Hary, Hayes, Hines, Borzov, Lewis, Bolt. Facile obiettare: perché non Charles Paddock, vincitore nel 1920 ad Anversa e sottoscrittore di una infinità di primati negli anni successivi, ma suo malgrado confinato al quinto posto proprio nella finale che nel 1924 vide vincitore Abrahams. Perché non Bob Morrow, il bianco di Harlingen che a Melbourne, nel 1956, primo atleta dopo Jesse Owens, vinse 100, 200 e 4×100. Ancora, considerata la sorprendente eccezionalità dell’episodio, perché non Harrison Dillard, ostacolista, eliminato nella specialità preferita nelle selezioni per l’Olimpiade del 1948, qualificato come terzo atleta statunitense nei 100 e vincitore a sorpresa sulla pista di Wembley, rinviando poi l’appuntamento vincente sui 110, quattro anni dopo, ad Helsinki. E infine, perché non Maurice Greene, l’uomo del Kansas primo a Sydney, ineguagliato numero uno tra il 1997 e il 2001 con un bagaglio di titoli e di primati mondiali da mettere in crisi un contabile bancario. Opinioni, come tante, che non alterano di una virgola l’attendibilità delle otto citazioni. Tutto il resto va rinviato alla lettura del libro, alla fedeltà della documentazione, alla descrizione di personaggi che, uno sull’altro, hanno scritto pagine di sport che, sottratte alla labilità delle mode, sono affidate all’eternità dei tempi.

 

La lontananza delle epoche e l’insondabile inclinazione romantica di chi scrive queste brevi note lasciano preferire, rispetto ai campioni più recenti, l’arcaicità dei grandi del passato più lontano. Vale per l’orgoglioso riscatto dell’ebreo di origini lituane Harold Maurice Abrahams, vale per l’immenso Jesse Owens, da assegnare al novero, tecnico ed estetico, dell’assolutezza agonistica, vale per Armin Hary, vale per Jim Hines, vale per Bob Hayes, tutti esponenti di una atletica felix ancora lontana dalle livide consuetudini che avrebbero in seguito insozzato corpi e anime. Ma vale, risultati alla mano, per il gelido perfezionista Valery Borzov, per l’esuberante Carl Lewis e per il fenomeno degli anni Duemila Usain Bolt.

 

Marco Franzelli è da metà degli anni Settanta, in senso culturale, assiduo osservatore di atletica. Dopo i Giochi di Seul del 1988 raccolse l’eredità di Paolo Rosi al microfono televisivo. Eventi professionali e dinamiche aziendali ne modificarono successivamente i ruoli, portandolo all’assunzione di incarichi di responsabilità nel primo telegiornale dell’Azienda di Stato. Sfidando la riservatezza, e abusando della sua confidenza, non escludo che, se potesse, malgrado l’autorevolezza della sua attuale collocazione professionale, Marco Franzelli tornerebbe dinanzi a quel microfono. Perché l’atletica sa essere tentacolare come la più sfuggente delle amanti.”

 

Le osservazioni di Frasca e di Franzelli evidenziano come nella atletica, ma soprattutto nei giornalisti sportivi, il colore della pelle non ha mai significato nulla. Viene in mente dalle parole di Frasca una storia degna da raccontare: la bella storia nata nella Olimpiade del 1936, in una Berlino, nazista e razzista. Il colore della pelle e la “ razza” erano concetti che nel 1936 non erano proprio superati. Ma nella pista delle Olimpiadi di Berlino del 1936, accadde un miracolo: nacque una indissolubile amicizia, tra il biondo e “ariano” saltatore in lungo tedesco, Luz Long, che vinse la medaglia d’argento e Jesse Owens, velocista nero Statunitense, che stabilì in meno di un’ora tre record del mondo, eguagliandone un quarto. Fece anche i record delle 100 e delle 220 iarde, ma quelle sono distanze americane che non si corrono alle Olimpiadi. I minuti passati dal primo all’ultimo record che Owens fece quel giorno sono stati definiti “i più grandi 45 minuti nella storia dello sport“. E forse il significato extra-sportivo delle vittorie di Jesse Owens sta soprattutto in due cose: la reazione di Hitler alle sue medaglie e il rapporto tra Jesse Owens e Luz Long. Proprio durante la gara di lungo Owens strinse un inaspettato legame di amicizia con il biondo atleta tedesco che durante le qualificazioni gli dette il consiglio giusto per superare un momento di difficoltà. Long e Owens divennero amici e Long accompagnò Owens nel suo giro d’onore. Jesse Owens così descrisse questa gara: “Mi ricordo che nell’istante in cui toccai terra all’ultimo salto, Luz mi fu a fianco per congratularsi con me. Nonostante Adolf Hitler ci fulminasse con gli occhi dalla tribuna, Luz mi strinse fortemente la mano. Il mio avversario guardò al di là del colore della pelle, a ciò che io rappresentavo come uomo, Hitler o non Hitler, gara o non gara da vincere. Si potrebbero fondere tutte le medaglie e le coppe d’oro che ho e non servirebbero a placcare in oro a 24 carati l’amicizia che sentii per Luz Long in quel momento”.

 

I due si scambieranno lettere per diversi anni e Owens nel 1943 apprese con mestizia la notizia dell’amico sincero caduto in guerra. Quando iniziò la Seconda guerra mondiale Long fu punito e mandato a combattere: morì al fronte nel 1943. L’eroe di Berlino fu ferito gravemente durante lo sbarco degli alleati in Sicilia il 10 luglio 1943 in uno scontro a fuoco e morì quattro giorni dopo in un ospedale da campo britannico nei pressi di San Pietro Clarenza (Catania). Una giornalista tedesca scoprì la tomba di Luz Long nella fossa comune 2 piastra E del cimitero militare germanico di Motta Sant’Anastasia, dove fu sepolto nel 1961, traslato dal cimitero americano di Gela. Il sacrario si trova a otto chilometri da Catania.

 

Ma come non ricordare il colpo di fulmine tra l’uomo più veloce di Roma olimpica del 1960, Livio Berruti, che nel villaggio Olimpico si innamorò della bellissima Wilma Rudolph anche lei 3 medaglie d’oro. Un amore impossibile per colpa di Clay ? «Gli allenatori Usa mi fecero capire che su di lei aveva messo gli occhi quel giovane pugile, Cassius Clay.» – confessò anni dopo Berruti. Nel Convegno sulle Olimpiadi di Roma 1960 a Sulmona nell’aula magna del Liceo Fermi, stracolma di studenti, insegnanti, dirigenti sportivi e semplici cittadini, organizzato dalla ASD Amatori Atletica Serafini, Augusto Frasca ha parlato in diretta al telefono con Livio Berruti, ricordando, tra l’altro anche quel magico incontro, forse costruito ad arte da un fotografo delle Olimpiadi per creare uno scoop, ma sicuramente, da quello che poi ha raccontato, in una successiva intervista Berruti, qualcosa tra i due era nato o stava per nascere. Lui, giovane studente torinese di 21 anni, che fermò il cronometro sui 20″5, sconfiggendo gli statunitensi neri favoriti della vigilia, e aggiudicandosi la medaglia d’oro. Lei, bellissima, ventesima di ventidue figli di una povera famiglia nera del Tennessee. Era ancora piccola quando fu colpita da poliomielite, e rischiò di rimanere zoppa alla gamba sinistra.

 

Per anni fu costretta a portare un apparecchio correttivo, e ad andare due volte alla settimana all’ospedale per fare le terapie, in uno stato fortemente razzista, nonostante l’ospedale riservato ai neri si trovasse ad ottanta chilometri dal paese in cui abitava. Nel 1960 a Roma, Wilma Rudolph fu tra i grandi protagonisti dell’Olimpiade, vincendo tre medaglie d’oro. Nei 100 m, dopo aver eguagliato il record mondiale correndo la semifinale in 11″3, vinse nettamente la finale in 11 secondi netti, tempo non riconosciuto come nuovo record mondiale per via dell’eccessivo vento favorevole. Tre giorni dopo bissò il successo vincendo i 200 m in 24″0, dopo aver eguagliato il record olimpico correndo in 23″2 nelle batterie eliminatorie. Conquistò infine il terzo oro nella staffetta 4×100 m, gara conclusa col nuovo record mondiale in 44″5. Il fotografo li ritrasse mano nella mano e i giornali di tutto il mondo parlarono della loro storia, che finì poi, purtroppo, sul nascere, ma senza nessuno che gridasse allo scandalo.

 

Nel ricordo di Gaia Piccardi il 23 agosto 2010 nel corriere.it/sport/

 

“Livio e Wilma furono per tutta la durata delle Olimpiadi la coppia cult di Roma ‘60.” “Ci innamorammo di loro a prima vista, un colpo di fulmine che ha viaggiato fino a questa estate 2010, nozze d’oro con Roma ’60 e con quella straordinaria suggestione collettiva, l’italian boy e l’americana del Tennessee, il bianco e la nera”. Oggi, che Berruti, a 79 anni, è un ragazzo attempato incapace di percorrere dieci metri senza essere riconosciuto e associato alla sua dama – “ciao Livio, e Wilma?” – i tempi sono maturi per una rivelazione da affogare in un Campari senza lacrime.

 

«Io e Wilma non consumammo mai quell’amore». Perché, Livio? «Perché gli allenatori della squadra Usa, che al villaggio olimpico ci seguivano ovunque, mi fecero capire che su Wilma aveva messo gli occhi un giovane pugile del Kentucky, che sarebbe stato meglio non infastidire per due motivi: perché era a Roma per vincere l’oro dei mediomassimi, una delle medaglie a cui gli Stati Uniti tenevano di più, e perché, se provocato, avrebbe potuto diventare aggressivo. Quel pugile che stava dietro a Wilma era un certo Cassius Clay». Perbacco.

 

Finì così, sul nascere, la più grande storia d’amore e di sport di tutti i tempi. Nel museo della memoria ne conserviamo rari e preziosi reperti, li spolveriamo ad ogni anniversario, in memoria di ciò che avrebbe potuto, e non fu, e di Wilma, che, dopo essere nata prematura e aver bruciato sul tempo la poliomelite, cominciando a camminare a 8 anni e polverizzando a 20 i 200 in 22” 9 (prima donna nella storia a scendere sotto i 23”, tre decimi succhiati al record di Betty Cuthbert: un progresso sensazionale come ci ricorda il bel libro di Claudio Gregori «Berruti, il romanzo di un campione del suo tempo»), se ne andò il 12 novembre ’94, abbracciata, vittima sacrificale e per sempre immortale, a un tumore al cervello. «Lo seppi dai giornali – ricorda Livio -, e ci rimasi malissimo».. .

 

Il resto è noto. O quasi. L’incontro al villaggio a gare non ancora iniziate. «La Rudolph vorrebbe scambiare la tuta con te, Livio» gli dissero. Lo sventurato rispose, senza sapere che, da quel giorno, non avrebbe mai più smesso di farlo. «Quella famosa foto di noi due mano nella mano, con le dita intrecciate, che lascia sottintendere chissà cosa, in realtà fu scattata cinque minuti dopo che ci presentarono». Due sprinter di “razza”, anche nel privato. Un gesto di forte intimità. Le dita bianche che accarezzano le dita nere. Un messaggio potentissimo al mondo appena tre anni prima del discorso di Martin Luther King a Detroit: «I have a dream, ho il sogno che un giorno i bimbi bianchi e quelli neri possano stringersi la mano come fratelli e sorelle…». Come Livio e Wilma. Le cronache registrano incontri fugaci al campo d’allenamento e all’Olimpico. Mai in privato. Mai appartati. Mai soli. «C’erano sguardi lunghissimi, occhi negli occhi, perché da subito ci eravamo sintonizzati. Con le mani, che stringevamo appena potevamo, ci comunicavamo tutto ciò che le parole non esprimevano. Negli abbracci Wilma mi trasmetteva una magia e una volta le rubai un bacio a fior di labbra, fugace e rapidissimo, però i coach erano come cani da guardia, le trasgressioni non erano permesse e all’epoca vigeva una legge ferrea: mai sesso prima delle gare »..

 

Mentre Cassius Clay prendeva a pugni Roma (oro annunciato), Livio vinceva i 200 e Wilma i 100, i 200 e la staffetta 4×100. «La timidezza e la concentrazione richiesta dall’impegno agonistico mi impedirono di agire durante l’Olimpiade, ma mi ero preparato un piano: appena finite le gare avrei invitato fuori a cena Wilma, immaginavo di portarla a Trastevere senza sapere che, a casa, aveva un figlio e un uomo, speravo che fosse lei a fare la prima mossa. Il mio inglese era scarsissimo. La mia esperienza con le donne, nonostante la tresca con la russa Tonya l’anno prima a Mosca, limitata. Sono sempre stato per la qualità, non per la quantità. A costo di beccarmi gli sfottò dei compagni di squadra. Dopo la cena, avrei chiesto qualche dritta a un taxista, quelli di Roma sono i più sgamati: ci porti in un hotel discreto, in fretta. Invece…». Invece gli accompagnatori Usa, a corto di soldi, caricarono Wilma su un aereo con i suoi tre ori al collo e le promesse non mantenute nella stiva. «Sparì dalla sera alla mattina, senza salutare». E Livio rimase lì, sospeso e un po’ storto come oggi davanti al suo Campari. «Mi sentii tradito, impotente. La vissi come una fuga, ma con il sollievo di non essere deluso. E se non ci fossimo piaciuti? E se passare dalla fase platonica a quella aristotelica non fosse stato come ci immaginavamo?». Gli restano la tuta di Wilma, sotto naftalina nel cassettone («Se ne occupa mia moglie Silvia, che l’accudisce senza gelosia») e una valigia di ricordi. Non ha mai cercato Wilma nelle altre donne, giura. Però, da cinquant’anni, è sotto incantesimo. «Nemmeno la Loren e la Lollobrigida mi stregarono così».

 

Di storie tra bianchi e neri lo Sport è pieno basti ricordare Abdul e Simone Santi, avversari per anni sul campo di Basket e quando Abdul Jeelani, stella del basket che aveva fatto sognare i tifosi livornesi e romani, dopo due matrimoni falliti, rimasto senza lavoro, tre operazioni per un tumore, si è ritrovato tra gli homeless di Racine, sul lago Michigan, Abdul incontra Emilio Omenetto, un signore italiano che lavora in una multinazionale che nel tempo libero fa il volontario alla Halo. Omenetto racconta la storia in Italia, nasce una pagina su Facebook e un passa parola che arriva alle orecchie di Simone Santi, presidente della Lazio Basket, che quando lui era piccolo e l’omone si chiamava ancora Gary Cole (ha cambiato nome quando si è covertito all’islam) l’aveva adorato al palazzetto di viale Tiziano. Oggi Santi è amministratore delegato della Leonardo Business Consulting, finanzia due orfanotrofi in Mozambico per insegnare basket a bambini e bambine dai 6 ai 14 anni, mentre nel Lazio gestisce 12 centri con 600 ragazzini di 27 nazionalità diverse, dove i figli delle periferie possono trovare un momento di serenità con la palla a spicchi.

 

Santi decide quindi di contattare Abdul e di proporgli di allenare i bambini disagiati di cui si occupa la Lazio Basket. Jeelani non ci ha pensato due volte e, superate alcuni problemi burocratici il 15 gennaio è finalmente tornato in Italia e alla sua nuova vita.

 

Ma perché non ricordare la storia di Nino Benvenuti ed Emile Griffith, avversari sul ring (il 17 aprile del 1967, 18 milioni di italiani alle 4 del mattino si incollarono alle radioline per seguire la conquista del titolo mondiale di Benvenuti sul ring di New York). La storia di due campioni. Di due uomini che sul ring si sono presi a pugni, ma che nella vita si sono sempre tenuti per mano. è la storia di una amicizia: quella tra il “nostro” Nino Benvenuti ed Emile Griffith, il suo “antagonista” di sempre, suo fratello da sempre. Questa storia comincia più di 40 anni fa, quando due giovani boxeur si sfidano sul ring del Madison Square Garden per il titolo di campione del mondo. Sono tre gli incontri che li vedono protagonisti, tre incontri che vedono scontrarsi un campione americano nero e un europeo bianco, biondo con gli occhi azzurri. Ma a loro non interessa. Non interessa che a vincere sia Benvenuti. Scesi dal ring Emile e Nino sono amici. E lo sono nei momenti difficili e lieti della vita. Benvenuti sceglie Emile come padrino alla Cresima di uno dei suoi figli, gli sta vicino nei momenti di indigenza. E decide di stargli vicino quando riceve una telefonata dal figlio di Emile, Luis, che gli chiede aiuto perché il padre ha l’Alzheimer ed un sussidio di 300 dollari al mese. è il Natale del 2009 e Nino decide di portargli 10mila dollari, raccolti grazie all’aiuto di alcuni amici. Ma non basta. Nino deve fare di più e lo fa partendo dall’Italia. Con l’aiuto prezioso di amici, come Luciano Ferrari, Anita Madaluni e Mauro Grimaldi, sponsor e collaboratori insostituibili, ho cominciato a bussare a tante porte per sensibilizzare verso il caso del mio amico Emile e, di conseguenza, verso una delle malattie più subdole che esistano. Il mio rapporto con Emile è tale per cui quello che ho fatto è ciò che si dovrebbe fare verso una persona grazie alla quale sono diventato quello che sono. Se non ci fossero stati quegli incontri, io non sarei diventato, probabilmente, campione del mondo! Ed è quello che è naturale fare verso una persona che considero un fratello».

 

« E così abbiamo dato vita al Magic Round: Round perché è il quarto dopo quei tre famosi incontri che ci videro avversari sul ring. Magic perché è un round senza pugni, fatto solo di abbracci».

 

Augusto Frasca una carriera sintetizzabile come la dice lui nella sua definizione preferita: osservatore di sport. Nel dettaglio, saggista, giornalista, storico. Pratica in gioventù calcio, atletica, judo, ciclismo, tennis. Si accosta al giornalismo nella fucina allestita a Roma da Giuseppe Sabelli Fioretti alla testa del settimanale Selesport riservato allo sport dilettantistico e successivamente, a fianco di Vanni Lòriga, nel Corriere dello Sport, nell’epoca della direzione di Antonio Ghirelli. Negli stessi periodi ha una intensa presenza sul versante della promozione sportiva nei quadri dirigenziali e organizzativi dell’amministrazione capitolina. Lauree in sociologia e in pedagogia, a lungo capo ufficio stampa della Federazione Italiana di Atletica, rivoluzionando metodi e strategie della comunicazione sportiva, dirige le pubblicazioni Atletica e Atletica Studi, i servizi stampa dei principali avvenimenti internazionali –

 

premio dell’Unione Stampa Sportiva Italiana nel 1974 e dell’Associazione Internazionale Stampa Sportiva nel 1981 – e i volumi Il libro dell’Atletica Leggera e Il nuovo libro dell’Atletica Leggera. Responsabile del Centro stampa di Roma ai Mondiali di calcio del 1990, supervisore nel 1991 ai Mondiali di atletica di Tokyo, negli stessi anni scrive per il Guerin Sportivo, per l’Indipendente, per Il Tempo e per pubblicazioni edite dalla Federazione internazionale di atletica.. –

 

Dal 2000 al 2012 pubblica libri su storici personaggi dello sport italiano (Giorgio Oberweger, Giuseppe Dordoni, Dorando Pietri – primo premio di saggistica nel concorso letterario del CONI e premio speciale al Bancarella – e Giulio Onesti), scrivendo inoltre con Vanni Lòriga una ricostruzione dei Giochi olimpici del 1960 e curando con Claudio Ferretti la prima enciclopedia dello sport Garzanti. Componente del Comitato scientifico dell’Enciclopedia Treccani, affianca Giorgio Tosatti nella fattura del volume sul calcio. Presidente della Commissione onorificenze della FIDAL (2013) e Quercia al Merito di III grado, membro d’Onore dell’Associazione Atleti Olimpici e Azzurri d’Italia (2008), membro dell’Accademia Nazionale Olimpica (2014), Ufficiale al merito della Repubblica (1987), è socio fondatore dell’ASAI, Archivio storico dell’atletica italiana (1994). Scrive per i periodici Correre e Spiridon Italia ed è opinionista per il quotidiano Il Tempo.

 

Bibliografia: Atletica, mensile della FIDAL dal 1970 al1989, World Championships in Athletics, International Sport Publications, 1983, 100 Golden Moments, IAAF, 1987, Infinito Oberweger, FIDAL, 2000, Dordoni, un uomo solo al comando, Sei Decimi, 2002, Enciclopedia dello sport, Treccani, 2002, Roma olimpica, la meravigliosa estate del 1960, CONI, 2010, Giulio Onesti, lo sport italiano, Fondazione Giulio Onesti-CONI, 2012.

 

( Coordinamento di Redazione CNIFP / Giorgio de Tommaso )

 

 

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