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DUE PASSI FUORI DALLA CIVILTA’, NEL BOSCO GIARDINO DI CARLO PAGANI

Torna alla sua prima stesura, proprio come Mimma e Carlo lo avevano pensato, “Due passi fuori dalla civiltà” (Pentagora, pagg. 221, 14 euro). Un diario di campagna che, su proposta dell’editore Massimo Angelini, parte però da San Martino (11 novembre) e ritorna lì dov’è iniziato. È così che prende corpo l’ultima fatica a quattro (o sei) mani del Maestro Carlo Pagani e di Mimma Pallavicini. Nel giorno in cui terminano e ricominciano l’anno dei contadini e i contratti agrari, ha inizio la deliziosa e quanto mai doviziosa lettura di questo diario che si legge come un romanzo, informa come un manuale di giardinaggio, nutre come una lezione di vita e mostra una strada per il futuro come fosse una profezia.

A parte il carattere tipografico della lettera “s” che, bizzarramente, sembra volersene saltar via dalle pagine per una svista nell’impaginato, a parte le incisioni che accompagnano i mesi narrati da Carlo Pagani che rimandano al bolognese Giuseppe Maria Mitelli, a parte la copertina dove spicca l’acquerello di un airone a firma di Rita Ammassari, c’è innanzitutto da dire che l’agile volume doveva chiamarsi “Diario di un sopravvissuto due passi fuori dalla civiltà”. Non solo, perchè il volume doveva anche avere un po’ i connotati dell’autobiografia di Carlo. E giù a leggere di quando (il 14 novembre) il Maestro lascia alle lepri le foglie del radicchio rimosse dai cespi, per far godere loro di un inaspettato coffee break. Che dire della poltiglia bordolese che sceglie di dare meglio se nel pomeriggio su peschi, susini, albicocchi e ciliegi per evitare loro le malattie alla ripresa vegetativa? Delle provviste dell’orto e del bosco custodite nella casetta-magazzino come consigliava nonna Adelina che sentenziava: “Se la credenza è piena, l’inverno è meno freddo”. Dei fagiani che a casa di Carlo sono dei “rifugiati politici”, giusto per non essere presi di mira dai cacciatori? Non si può dire, si deve leggere la storia narrata. Decisamente bella l’idea del frutteto come una palestra creativa alla quale Carlo si è dedicato il 23 novembre, sfruttando il periodo del bel tempo, ma sapendo di poter potare fino a tutto febbraio.  Bene, anzi, benissimo: se siete pronti a uscire dal mondo, siete ancor più pronti ad entrare nel podere che fu di Checc Méngual, all’anagrafe Francesco Mengoli. E prima ancora del nonno di Carlo Pagani. Vent’anni fa la rivincita del nipote che si insediò in questo che è più di un bosco giardino dove la parola d’ordine è condivisione. Dove una dacia dal sapore russo divide la campagna (fuori) dalla civiltà, internet e il filo diretto con New York (dentro la casetta). E dove nel mezzo c’è lui, Carlo che tra musini  (topi di campagna) e viole odorate ci delizia con il suo racconto, indicandoci la strada per raccogliere semi e favoleggiare sui possibili usi da farne, al momento opportuno, come una terapia. Lo sa bene anche Mimma Pallavicini, naturalista specializzata in giornalismo di divulgazione botanica e orticola, che qua e là nel diario inserisce a mo’ di tassello dei pensieri a voce alta sulla natura, su Carlo e sull’amicizia.

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