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DAL SARNO AL TEVERE LA RIPARTENZA SELVAGGIA

2 GIUGNO 2020
– L’idea dei muraglioni ed il completamento della costruzione , nel 1926, fu la prima a condannare il Tevere, come il Sarno a Pompei, Fiume deificato dai Romani. Lui, dal vetusto, onusto e indistruttibile Ponte Milvio in giù, adesso attraversa la Città Eterna infossato, quasi fosse obbligato agli inferi, ignorato dai più, eppure ci dette la vita e al guado dell’Isola Tiberina consentì lo scambio, la contaminazione tra Etruria e Latium Vetus, la nascita del Foro Boario e con il primo insediamento dell’Urbe sul Campidoglio, la Cloaca Massima, come indice di civile urbanizzazione, ma anche come apporto di liquami incompatibili con la natura. Ecco, che con la ripresa delle attività antropiche, dopo la paura dovuta alla pandemia da COVID 19, dopo una tregua forzata della nostra criminale aggressività ambientale, con la ripresa, che è ripartenza selvaggia e irriguardosa dell’ambiente, si attivano disastri. Altro che mascherine e guanti occorreranno di questo passo. Giorni fa, abbiamo assistito alla trasformazione del Sarno, ritornato straordinariamente limpido con le concerie ferme, di nuovo policromo, mefitico, con la ripresa delle attività. Adesso la stessa sorte è toccata al Tevere che da Biondo e ultimamente popolato da colonie di anatre è divenuto cinereo, putrescente veicolo di morte e di possibile contagio con tonnellate di cavedani, barbi, carpe, lucci, cefali, anguille e scardole, trasformate da testimonianze di salute e di vita in carcasse, in cibo pericoloso per ratti e gabbiani, che come si sa sono promiscui con noi umani ed in catena alimentare con altri sospettabili dei meccanismi di contagio. Lo spettacolo orribile e la tanfa insopportabile dei miasmi da quei pesci morti e agonizzanti lungo le sponde e sotto i ponti, sino alla foce, sino a Fiumicino, non rappresenta peraltro un messaggio particolarmente invitante per chi dovrebbe riavvicinarsi al Tevere per fare sport ed intercettare il naturale, piuttosto che per gli invocati turisti. Tanto è stato grave l’insulto avvelenato, che ci sono testimonianze di una disperata migrazione dei pesci più grandi del Tevere, dai lucci, ai luccioperca, alle grandi carpe ed agli alieni siluri di due metri di lunghezza, verso il mare, in un tentativo estremo di sopravvivenza, che li avrebbe sospinti per chilometri e chilometri sino al misto salato della foce a Fiumicino. Purtroppo, la percezione che si ha – e ve lo scrive uno come me, che il Fiume lo ha vissuto ed amato – è quella di un immenso dolore, tal quale lo strappo dai genitori all’atto della morte. Adesso, registriamo soltanto la lapidaria, mera costatazione del danno avvenuto, della distruzione irreparabile della fauna e di un habitat indispensabili, a fronte della stucchevole dichiarazione istituzionale della mancanza di anomalie, di sversamenti sospetti a distanza di ore e ormai al secondo giorno dallo tsunami di morte, che potrebbero essere pervenuto da monte, dall’abbraccio insidioso con l’Aniene, di per se gravido dei percolati derivanti da mostruose discariche tossiche lungo le stravolte sponde. Tutto questo non ci conforta, né ci rassicura sul nostro futuro di scampati, per cui, come invocato da ONA e CNIFP, forse è venuto il momento, senza se e senza ma, di rivedere la legislazione sui reati ambientali, quella che attualmente induce gli autori dei crimini a preferire condanne e multe insignificanti ai giusti costi per il rispetto dell’ambiente, ripartenza o non ripartenza.
Ruggero Alcanterini

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Ruggero Alcanterini

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