– Sono tornato in patria, lasciando alle spalle il fair play in salsa magiara e Budapest, decisamente in competizione con Copenhagen in quanto a splendore. Francamente, tornare nella nostra normalità fatta di emergenze di ogni genere non è confortevole e per fortuna sono un ottimista per natura. Certo, ti chiedi perché la tua Città rigurgita degrado ogni dove, quando appaiono altrove pulizia, ordine e funzionalità, come pura normalità. Allora, l’odierno blitz della polizia su scala nazionale contro la criminalità organizzata tra le tifoserie del calcio e in particolare della Juventus, appare come un fatto straordinario e ti dai tante spiegazioni sugli accadimenti di violenza, dentro e fuori degli stadi. Anzi, presa conoscenza degli intrecci illeciti a trecentosessanta gradi, di quanto avviene sotto l’ombrello comodo dello spettacolo sportivo più amato, ci viene il dubbio che ogni domenica si rischi di vedere sceneggiate i cui soggettisti e registi non hanno nulla a che vedere con chi sta nel rettangolo di gioco. Ma questa è una vecchia storia, che ci impone attenzione anche sulla questione principe della riforma sportiva, che non può vedere insieme il business, le società per azioni, il professionismo, lo spettacolo e la pratica, l’attività motoria, del tempo libero con finalità educative e salutistiche della collettività. Le Federazioni e le Leghe, la promiscuità tra organismi con identità diverse se non contrapposte, l’utilizzo proprio e improprio di risorse e strutture pubbliche, lo stress per la sicurezza, il dopaggio dei sacri sentimenti dell’appartenenza, la dicono lunga sul danno sociale indotto e procurato per decenni, in assenza di una chiara, rigorosa regolamentazione della materia. Eppure, treni sequestrati, città a ferro e fuoco, omicidi, cittadini privati della libertà fondamentale di andare in tranquillità allo stadio sono un male ormai avanzato, dal profilo inquietante della difficile curabilità. Dunque, agire con azioni di polizia, dopo indagini che non hanno lasciato nulla alla immaginazione, non basta, ma occorre un cambio radicale e coraggioso di orientamento, del resto invocato fin dagli anni sessanta. Un compito duro, difficile da affrontare, soprattutto quando l’immaginario collettivo è in stato confusionale e scambia i valori surrogati per quelli reali, quando quasi nulla è certezza, salvo le catastrofi avvenute, se mai annunciate.