Ieri abbiamo davvero accusato il colpo. Nonostante si viva un periodo di surreale tragedia collettiva, nonostante ci si sia assuefatti alle cattive notizie, il dolore che abbiamo provato per la morte di Ezio Bosso è stato intenso e profondo, istintivo tanto quanto improvvisa e dirompente la notizia. Sentirci dire quello che, nell’algida essenzialità sanitaria, rappresenta la possibile evoluzione, l’inevitabile conclusione di una anamnesi negativa, ci ha stordito, quasi che la sua resilienza alla perversità del destino fosse un comune baluardo, una bandiera tricolore sfumata d’iride, da lui impugnata e mantenuta, oltre ogni più ragionevole umana capacità di resistere. Ezio, prima ancora di essere uno straordinario interprete di quello spirito, che anima la nostra capacità di essere, di questa umanità così complessa e diversa in natura, era un simbolo eroico, un usbergo ed una sicumera per noi tutti: dalla normalità alla esaltazione del genio artistico, alla estrinsecazione dirompente di diversa energia positiva, generosa, senza limiti nel donarsi, come risposta diretta, determinata al male oscuro che lo aggrediva. E questo per noi sino a ieri era un messaggio salvifico, di fondamentale conforto. Così, oggi, lo avvertiamo ancora come un monumento alla trascendenza delle virtù. Il suo straordinario talento, la sua naturalezza nel comunicare al contempo il dolore e la gioia, continua a rapirci nella memoria, a riproporre l’incantesimo della suprema emozione. Adesso, rivedendolo in azione, riascoltando le arie vibranti di quel che è già la testimonianza di un suo passato prossimo, ci sentiamo presi per mano nel passaggio in quel che è già nostro futuro. E per questo, non possiamo che commuoverci nel profondo, abbandonarci nel pathos della sua onirica estasi e farlo nostro, condividerlo, per beneficiare della mirabolante capacità di trasmutare il male in bene, di ricavare con parole, crome, biscrome, semicrome e suprema gestualità, l’energia per trasformare la sofferenza in un finale apoteotico, dopo una lunga overture impreziosita da sereni abbandoni e guizzanti iperboli. Infine, noi, aspiranti orchestrali, fissiamo l’inerte bacchetta , impietriti nel silenzio ottundente, dopo l’esaltazione melodica. Siamo in pedi, a capo chino, per l’estremo saluto ad Ezio Bosso.
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