Riceviamo e pubblichiamo una nota a firma di Fabio Nestola, membro del consiglio direttivo Adiantum (Associazione di Aderenti Nazionali per la Tutela dei Minori) e presidente della Federazione Nazionale Bigenitorialità (FeNBi), riguardante un provvedimento di un giudice del Tribunale per i Minorenni di Roma.
“Il Tribunale per i Minorenni, autentico baluardo dei diritti dell’infanzia. Della serie: è difficile crederci, ma questi li paghiamo pure.
Oggi forniamo una ulteriore dimostrazione di cosa il Tribunale per i Minorenni intenda per interesse del minore.
O meglio, di come riesca a storpiare l’interesse del minore, la bigenitorialità, l´affidamento condiviso…
Nulla di nuovo, purtroppo è la seconda puntata di una vicenda – umana prima ancora che processuale – che grida vendetta ad ogni nuovo atto.
Per chi volesse approfondire le prime bestialità sono descritte al link:
Il signor S.S. viene lasciato dalla convivente il giorno stesso in cui lei sa di essere incinta, quindi viene allontanato dal figlio prima ancora che nasca.
Il 19 agosto 2014 scrivevamo
“Aspre lotte in tribunale per poter riconoscere il bimbo, poi lotte ancora più aspre per iscriverlo all’anagrafe e potergli dare il cognome: l’opposizione della madre ha ceduto solo di fronte alla prova del DNA, ma la signora continua ad ostacolare la paternità con ogni stratagemma: prova ne sia che, nonostante tutto, dopo quasi due anni il bimbo ha ancora solo il cognome materno”
Aggiornamento: il decreto che aggiunge il cognome paterno a quello materno è arrivato la settimana scorsa, in risposta ad una istanza del 2012. Una saetta.
Le misure provvisorie ed urgenti nel 2013 disponevano la misura (follemente assurda per chi scrive, evidentemente no per chi l’ha stabilita) di incontri padre-figlio al bar, due ore per due giorni a settimana.
D’altra parte la madre “concede” questo e nulla più, che ci vuoi fare…
È lecito chiedersi se il ruolo del giudice sia ancora quello di assumersi delle responsabilità, se sia ancora quello di prendere decisioni nel superiore interesse del minore, o sia ormai circoscritto a ratificare ciò che un genitore è disposto a concedere all’altro.
Se così fosse cosa si va a fare in tribunale? I genitori chiedano servilmente il permesso alla controparte e si accontentino di ciò che “concede”, tanto il giudice non si discosterà troppo dal diktat del genitore prevalente[1], quello a cui il tribunale consegna ufficiosamente il potere di veto.
Nel caso di specie – come sempre, o quasi – compare la parola magica: l’immancabile conflittualità che serve a giustificare l’inerzia del sistema e l’incapacità di adottare misure concrete a tutela del diritto del minore alla bigenitorialità.
Perché questa coppia sarebbe conflittuale? Lei vuole escluderlo e lui, pensa un po’, non vuole essere escluso; non accetta passivamente di perdere il figlio, quindi secondo il Sistema è conflittuale tanto quanto chi lo ostacola.
Sintetizziamo uno scambio surreale, che in tribunale è avvenuto veramente anche se con modalità dilatate nel susseguirsi di varie udienze.
LUI: “posso vedere il bambino?”
LEI: “no”
LUI: “ma dai, fammi vedere il bambino”
LEI: “no no”
GIUDICE: “lo sapevo, non riuscite a trovare un accordo quindi siete conflittuali”
LUI: “scusi, ma vedere anche il padre non sarebbe un diritto del bambino?”
GIUDICE: “in teoria si, ma la mamma che dice?”
LEI : “non se ne parla proprio”
GIUDICE: “Visto? Che ci posso fare, siete conflittuali”
LUI: “ma così lei detta le regole e io devo obbedire … questa non è trattativa, è dittatura”
GIUDICE: “beh, in effetti … signora, ci vuole ripensare?”
LEI: “no”
GIUDICE: “ok, allora se la signora vuole il bar lei vede il bambino nel bar”
Non è finita, il Tribunale ha il potere di stupire: adotta misure sbilanciate a sfavore del genitore penalizzato.
Penalizzato quindi due volte: prima dall’ostracismo della madre, poi dall’ottusità della giustizia.
Visto che c’è conflittualità, diamo incarico al servizio sociale di valutare la genitorialità paterna.
E quella materna, no?
Risulta agli atti che la madre si dimostra accanitamente possessiva, da anni, quindi mettiamo il padre sotto la lente di ingrandimento.
Follia lucida, legittimata da migliaia di provvedimenti simili.
Non è che per caso, e dico per caso, sarebbe necessario valutare se questa madre è in grado di comprendere i diritti del figlio?
Nessuno ha sentito il bisogno di valutare se la madre abbia agito negli interessi del minore – o piuttosto mossa da rancori personali –, al momento di escludere il padre opponendosi al riconoscimento, di “concedere” due ore di incontri, di imporre il bar come unica sede, di far saltare decine di appuntamenti, di ostacolare ripetutamente le modalità di visita già gravemente limitate nei tempi e nei modi.
Ma in Italia funziona così, le verifiche sull’adeguatezza genitoriale le fanno sul genitore escluso, non su quello escludente.
Risultato: un anno di percorso presso i Servizi Sociali, padre e figlio si incontrano due pomeriggi a settimana presso lo spazio neutro dei Servizi; relazione più che positiva, il padre è perfettamente in grado di occuparsi del figlio, gli incontri possono anche avvenire senza la supervisione dei Servizi.
Però – si sa – tutto va fatto gradatamente, guai a consentire che padre e figlio possano incontrarsi senza ingerenze esterne e magari, pensa che stranezza, sviluppare una sana familiarità.
Non sia mai, mezz’ora di libertà deve essere conquistata con le unghie e con i denti, del diritto del minore non gliene frega niente a nessuno quindi le nuove misure dicono: un giorno nello spazio neutro, un altro fuori ma con babysitter al seguito.
LUI: “perché la babysitter?”
SERVIZI: “l’ha chiesta la signora, così è più tranquilla”
LUI: “insomma pure con voi comanda lei, allora ditelo”
SERVIZI: “ma no, non sia conflittuale”
LUI: “vuole sempre qualcuno che controlli, non accetta che io stia da solo col bambino”
SERVIZI: “in effetti … signora, andrebbe bene pure senza babysitter?”
LEI: “no”
SERVIZI: “ok, allora che babysitter sia”
Questa storia si dimostra una collezione di anomalie, una più inconcepibile dell’altra, sempre in ragione dell’appiattimento istituzionale sulle imposizioni materne.
Non bastava l’assurdità del bar, ci voleva pure la babysitter.
Curioso, perché la figura della babysitter nasce per occuparsi della prole in assenza dei genitori, quando se ne occupano la madre, il padre o i nonni diventa ovviamente superflua.
O meglio, nasce per sorvegliare i bambini quando i genitori vanno al cinema o a cena fuori, non per sorvegliare il padre che sta sullo stomaco alla madre.
Però il signor S.S. è stato costretto a digerire anche questo, altrimenti sarebbe stato conflittuale.
Alla fine anche i Servizi si arrendono all’evidenza: la babysitter non serve a niente e, nelle more del giudizio, stabiliscono incontri liberi senza più guardiani di nessun tipo. Ma li tarano secondo il calendario precedente: le assistenti sociali in quanto dipendenti pubbliche non lavorano nel weekend, quindi anche gli incontri liberi replicano il calendario degli incontri nello spazio neutro, lunedì e giovedì.
Padre e figlio non possono mai incontrarsi di sabato o di domenica ma, finalmente, possono farlo senza supervisioni da parte di terzi.
Misure ancora fortemente restrittive, tuttavia rappresentano una grande conquista per chi ha sempre subito l’imposizione del cane da guardia.
Ma soprattutto c’è grande attesa per la liberazione finale che arriverà col provvedimento del Tribunale, all’esito della relazione dei Servizi.
Il signor S.S. ha sopportato anche l’insopportabile per tre anni di ostracismo senza limiti, alla fine del percorso nutre la legittima aspettativa che per suo figlio vengano stabilite misure normali che consentano attività normali: preparargli un pranzo, portarlo una domenica al circo, leggergli una favola per farlo addormentare.
Però siamo a Roma dove operano giudici molto particolari che, senza vergognarsi, riescono a produrre questo.
Affidamento condiviso, partono bene…
Poi però sbracano: tre ore due pomeriggi a settimana, niente sabato, niente domenica, niente pernottamenti, niente vacanze, impossibile persino cenare o pranzare insieme…
Però è affido condiviso, almeno secondo la singolare interpretazione che ne fa il Tribunale per i Minorenni di Roma.
Forse i giudici pensano che il bimbo sia piccolo, sarebbe traumatizzante strapparlo dalle braccia della madre troppo a lungo; va bene se trascorre 6 ore al nido, 5 coi nonni o 4 con la zia, ma guai a lasciarlo col padre per 3 ore e mezza.
Non è importante quanto sia lontano dalla madre, è importante che non sia con chi non vuole la madre
In fondo il bambino ha “solo” due anni e 9 mesi, forse secondo i giudici bisogna attendere il compimento dei tre anni per avere il pernottamento, le vacanze, etc.
Invece no
Si rischia di impazzire: aggiungono il sabato o la domenica, ma tolgono uno dei due pomeriggi infrasettimanali.
E certo, questo padre mica può essere invadente, se vuole la domenica deve pur rinunciare a qualcosa altrimenti diventa troppo presente nella vita del figlio. Limitare, limitare, limitare sempre e comunque.
Ha il condiviso, che altro vuole?
Ho forti dubbi che questo sia il diritto del minore alla bigenitorialità, ma per fortuna non sono un giudice.
Loro sanno tutto e decidono sempre al meglio, non so come facciano ma lo fanno.
Poco poco, piano piano, un po’ alla volta, senza fretta…
Dopo tre anni di ostracismo ed un anno di osservazione dei Servizi con relazioni ottime, il Tribunale dice che il diritto del minore è rispettato con due visitine di 3 ore.
Di questo passo per trascorrere un weekend col padre si dovrà arrivare al 2017, nel 2019 forse si potrà pensare a 3 pomeriggi, nel 2020 ad una vacanza di 15 giorni … quando avrà la patente potrà decidere se restare un mese.
Sempre nel pieno rispetto del diritto del minore e sempre se la madre non si oppone, altrimenti il padre o china la testa o diventa conflittuale.
Non ne posso più dell´ipocrisia dilagante che sembra essere l´architrave del sistema giudiziario, facciamo chiarezza una volta per tutte.
Avere un figlio non è circoscrivibile all’attività biologica necessaria al concepimento, e nemmeno ai nove mesi della gravidanza; la scelta di procreare comporta un insieme di doveri che entrambi i genitori assumono nei confronti del nascituro.
Nel caso in cui uno dei genitori voglia emarginare l’altro dalla vita dei figli, un sano attaccamento comporta che l’escluso non accetti passivamente di perdere o limitare i contatti con la prole per assecondare il delirio di onnipotenza dell’altro.
Tuttavia se osa contrastare gli ostacoli, ovviamente con gli strumenti previsti dalla legge, diventa conflittuale.
Quando la percezione di genitorialità è su livelli diversi può accadere che un genitore la intenda come “la proprietà esclusiva del figlio è un mio diritto, stanne fuori”, l’altro come “vorrei avere anch’io uno spazio, la mia quota di doveri e compiti di cura”.
L’agito dell’uno non è nemmeno paragonabile a quello dell’altro – nella forma e nella sostanza, negli obiettivi e nelle motivazioni – ma una lettura miope non permette di distinguere.
Sarebbero conflittuali, al plurale.
Esiste una conflittualità unilaterale, è ora saperla riconoscere senza più lavarsene le mani.
Uno riconosce il ruolo dell’altro e la complementarietà delle figure genitoriali, fondamentali nel processo di crescita dei figli; l’altro riconosce solo il proprio ruolo e vorrebbe imporlo come modello unico alla prole, disconosce il ruolo altrui, lo delegittima come inutile, superfluo.
Uno in sintesi interpreta la genitorialità come monopolio, l’altro come compartecipazione; se un genitore lotta per esserci solo lui e l’altro per esserci anche lui, non è possibile ipotizzare una simmetria di piani valutativi.
Ma da noi non sanno fare altro. E li paghiamo pure”.
[1] – affidatario prima del 2006, collocatario dopo la riforma-farsa dell’affido condiviso – ma sempre genitore sovraordinato nel processo di crescita della prole, esattamente ciò che il Legislatore intendeva eliminare.
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