Ieri, come da programma, io sono volato ad Anzio per salutare i ragazzi de “IL MONDO VISTO DAI MIEI OCCHI”, un esercito di vibranti poetesse e qualche maschietto più che sensibile, coraggioso. Infatti, il vincitore ha avuto la forza di raccontare il suo complicato presente proiettato nel futuro, evitando il pessimismo, con un titolo che dal “lucean” della Tosca, evitando le “rapite” dal disastro ambientale, è approdato a “RAPIDE STELLE”, ovvero ad un divenire in proiezione geometrica. Lasciando il tifo da stadio, il clima d’entusiasmo creato dalla prof. Manuela Miocchi all’Istituto Alberghiero anziate Marco Gavio Apicio mi sposto, in ideale contemporanea, alla LUMSA, ad un passo dalla Basilica di San Pietro, dove Antonella Stelitano , delegata del Comitato Italiano Fair Play a Treviso e prodigiosa storica dello sport, presentava “I PAPI E LO SPORT” la sua ultima creazione, a cavallo tra Olimpiadi e Giubilei e geniale sintesi tra fatti ed eventi avvenuti e mancati negli ultimi tre secoli. Contemporaneamente, sempre ieri, monsignor Mario Lusek, della CEI, lanciava suggerimenti e consigli alle Diocesi per IL GIUBILEO DEGLI SPORTIVI: un messaggio all’insegna dell’etica e del fair play, contro il doping, in cui siamo profondamente coinvolti e di cui allego uno stralcio… “LA RI-CREAZIONE DAI MALI DELLO SPORT: LA MISERICORDIA IN CAMPO
Ho iniziato parlando del rischio “etico” a cui può essere soggetto lo sport. Il tema simbolo è quello del “doping” e ci siamo chiesti nelle prime pagine di questo sussidio se c’è un futuro per l’atleta “dopato”
In un documento di alcuni anni fa del “Comitato nazionale per la bioetica” dal titolo “Etica, sport e doping” si mette in risalto i valori costitutivi della pratica sportiva e tra questi “l’impegno personale ad esprimere le capacità dell’atleta e la lealtà della competizione” e nello stesso tempo si afferma che “il doping costituisce un disvalore proprio perché altera in modo fraudolento tali valori: consente di raggiungere risultati anche a prescindere dall’impegno attivo, introduce un ingiusto e scorretto vantaggio nella parità di condizioni dei partecipanti, oltre a produrre – attraverso una indebita manipolazione del corpo – un danno alla salute psico-fisica dell’atleta con ripercussioni negative sul piano sociale.” Afferma inoltre che “l’inaccettabilità del doping fa parte del sentire comune nella società, in quanto viola le regole costitutive dello sport sul piano individuale e relazionale modificando il senso stesso dello sport che diviene ricerca del successo fine a sé”.
C’è una nozione, un atteggiamento, un’espressione nel mondo dello sport che definisce il cuore stesso dell’etica sportiva: il fair play. Termine non traducibile in maniera adeguata e non in grado di definirlo compiutamente. Il fair play è un valore ma anche uno stile, un obiettivo, un atteggiamento, una caratteristica ma anche e soprattutto una “forma mentis”: insomma il modo giusto di vivere lo sport. Tanto che una sua caratterizzazione è proprio quella dell’onestà e della limpidezza della pratica sportiva. Il Consiglio d’Europa nel “Codice di etica dello sport” indica tra gli elementi contrari al fair play: la violenza, il doping, l’imbroglio, la corruzione l’eccesso di mercato e di commercializzazione.
Sono invece poche le nozioni, le tracce o le proposte per accompagnare gli atleti, gli sportivi a liberarsi dal doping, dalla sua prigionia una volta che si è ricorsi ad esso ed evitare cosi di cadere ancora nella trappola. Quella recidività che lo fa diventare assuefazione.
Di fronte a questa piaga che ha raggiunto anche lo sport di base l’atteggiamento dominante è quello dell’intransigenza e della condanna, con le conseguenti sanzioni, la repressione del fenomeno, ma di reticenza sulla possibilità o meno di accompagnare verso una via d’uscita chi viene appunto condannato per l’uso di sostanze dopanti.
Sullo sfondo del fenomeno doping c’è comunque un problema di “trapasso culturale”. Oggi lo sport vive una marcata trasformazione antropologica che si fa visibile proprio nella figura dell’atleta. Il protagonista è lui: per il ruolo che assume nella società mediatica, per la sua prestanza fisica ed estetica, per la sua rilevanza commerciale. L’Atleta, il campione, assurge a opinion laeder e quindi al ruolo di trainare consensi, attrattiva, il grande pubblico. L’atleta allora lo si costruisce: diventa importante la sua costruzione biofisica e psicofisica; diventa decisivo il supporto della scienza nutrizionale e farmacologica, che per altro non è mai neutra. Lo scenario che si apre è inedito e suscita interrogativi sia a livello biologico che etico e sportivo: toccano snodi cruciali della visione generale dell’uomo, della sua identità come persona umana, del futuro dello stesso sport. Tutto rischia di diventare mito. Al mito si concede tutto, nel bene e nel male anche la pervasività del doping che registra correnti di pensiero per la sua liberalizzazione. Eppure tutti sappiamo come il doping investe la concezione della persona umana, riguarda la visione della vita e rivela la cultura che tocca i principi dell’essere e dell’esistere umano. Il doping prima di essere un abuso farmacologico è una grave lesione dell’unità della persona e di per sé non ha alcuna giustificazione: ne umana, né sportiva. Eppoi quel “vincere ad ogni costo” che è diventato il motto per raggiungere il successo con il minimo sforzo e il massimo rendimento fa del doparsi quasi una necessità.
Ritorna la domanda: quali azioni sono necessarie per una atleta che vuole “ricostruirsi” come persona e come sportivo, che vuole lasciarsi alle spalle un’esperienza per nulla esaltante ma solo demolitrice e infangante la sua carriera ?
Da una visione dell’uomo, della vita, dello sport e dell’atleta originata dall’esperienza sul campo e dall’esperienza cristiana che ha nella “creaturalità” della persona creata ad immagine di Dio la sua centralità, può svilupparsi un percorso di rigenerazione. Se questa “somiglianza” è stata sfigurata dall’errore, dalla fragilità, dal male, la persona, l’atleta resta sempre “immagine” del Dio creatore.
Per questo il primo passo sarà un modo diverso di rapportarsi con l’errore del doping e dell’ errante. Chi si è dopato ha perso la sua dignità, l’ha persa delegando ad una sostanza il suo impegno, ma non ha perso se stesso.
Nell’accollarsi la colpa ha già la sua pena, perché il doping gli ha rivelato la sua sconfitta più cocente, il suo fallimento, e l’umiliazione dei tifosi e mediatica subita.
Bisognerà allora riempiere di nuovo di contenuti la coscienza che si è vuotata e spenta e illuminarla di nuovo.
Per questo è necessario un ascolto partecipato in cui si ripercorrerà la storia umana e sportiva, i sogni e le delusioni, le pressioni e le resistenze, le rinunce e le scorciatoie imboccate, il ruolo avuto dai preparatori, le lusinghe di facili successi, i valori e i disvalori che si sono scontrati. Soltanto dall’ascolto partecipato potrà aprirsi la possibilità di un cammino di ricostruzione della storia sportiva spezzata.
Poi una nuova responsabilizzazione: ripartire dal rifiuto dei falsi valori per non invischiarsi innanzitutto in un doping esistenziale e ineluttabile e riformulare una propria scala di valori che riempia di senso e significato la propria esistenza sportiva. Autostima, fiducia nelle proprie capacità e risorse, affidamento a “maestri” (allenatori, manager, dirigenti, medici) di “vita” oltre che tecnici raffinati. Per non ricadere nella tentazione del doping, e quindi del successo facile e immediato, occorre recuperare la forza ideale che viene da una solida riformulazione dei valori umani e dei valori dello spirito.
C’è infatti una vita interiore da vivere che allena ad uno stile di vita diverso da quello sperimentato nel doparsi. Parole come perseveranza, costanza, consapevolezza, rispetto, equilibrio, fatica, tenacia, conquista alimenteranno la vita interiore e daranno la spinta verso mete alte e possibili e impegneranno sempre a far meglio con le proprie energie, ad affinare le personali abilità con la forza del carattere, ad esprimere le migliori potenzialità con l’autenticità della propria vita.
E c’è una fiducia da offrire: è necessaria in questa fase per creare le condizioni per esprimere ancora, o forse per la prima volta, la propria libertà da pressioni, condizionamenti, proposte che hanno costruito attraverso il doping “carriere devianti” e ritrovare cosi la grinta per una diversa “carriera vincente” che punta sull’”altro sport”: quello che non spinge al record per forza e non lancia sfide e primati impossibili, e che se propone traguardi “alti” questi sono tali in forza di quel “tener duro” che si sperimenta proprio quando si è sconfitti.
E solo attraverso l’accettazione dei propri limiti sarà possibile vincere la disumanizzazione di chi spinge troppo oltre gli stessi limiti e con tutti i mezzi possibili, facendo così violenza anche al proprio corpo e lacerando la stessa identità dell’atleta. Sarà necessario allora favorire nuove difese immunitarie per impedire le tentazioni venienti da pressioni indebite ed estranee al mondo dello sport: la cultura dominante, il sistema mediatico, l’idolatria delle cose, la mercificazione del corpo, che spinge ad una sorta di paganesimo sportivo: sacrificare se stessi, la propria volontà, il proprio futuro, le proprie conquista ad una sostanza.
Noi crediamo non solo possibile ma anche doveroso, aiutare, sostenere, orientare, accompagnare un atleta che è stato irretito e sedotto dal doping e renderlo capace di “rivestirsi dell’atleta nuovo”.
C’è infatti un Vangelo, una gioiosa notizia da raccontare a chi è caduto in questa trappola ed è possibile farlo con questi atteggiamenti ma anche attraverso la voglia di vivere, di ricominciare a giocare la propria vita su qualcosa di alto e su “Qualcuno” che non gioca sporco, e giocando pulito ti fa nuovo.
Si, c’è misericordia anche per il mondo dello sport e c’è uno “sport misericordioso” che sa trovare in se i segni del cambiamento e della conversione. E se come dice papa Francesco “questo è il tempo favorevole per cambiare vita” e “Dio non si stanca di tendere la mano” a chi vuol farlo, sarà più facile afferrare questa mano tesa e guardare al futuro con speranza.”
Ruggero Alcanterini
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